Antonio Gramsci

80° Gramsci, Rossi: “C’è bisogno di ‘grande politica’. In Italia troppi ‘Cesari’ regressivi”

Enrico Rossi, presidente della Toscana e confondatore di Articolo Uno-MDP ha partecipato alla Camera dei Deputati al seminario organizzato da Articolo Uno su “Le fonti politiche ideali della democrazia repubblicana“, dedicato alla figura di Antonio Gramsci, a ottant’anni dalla scomparsa del grande intellettuale comunista, nell’ambito di un ciclo di conferenze coordinate dall’on. Carlo Galli .

Oggi – ha premesso Enrico Rossirileggere e studiare Gramsci serve a ridare profondità e spessore al dibattito politico. Ce n’è assolutamente bisogno anche per superare quella che lo stesso intellettuale comunista chiamava la ‘piccola politica’, quella di tutti i giorni”.

LA SINTESI

Come scriveva Gramsci, per la ‘grande politica‘ è necessaria un’analisi dei rapporti di forza sul terreno sociale ed economico, un concetto – ha spiegato Rossiche evidentemente è in forte contrasto con il politicismo attuale e sotto il quale rischiamo di restare schiacciati. Se alla politica quotidiana manca il retroterra fornito dall’analisi economica e dalla capacità di interpretare le forze reali presenti nella società e di organizzarle, ecco allora che essa decade a personalismo, retroscena, manovra politicista”.

Il presidente della Toscana ha poi esaminato il rapporto tra capitalismo e rendita. Partendo proprio dai ragionamenti di Gramsci su ‘americanismo e fordismo‘, Rossi rilancia l’idea di un ‘processo al capitalismo‘, come fece il PCI nel 1962 quando in un convegno dell’Istituto Gramscimise all’indice il capitalismo parassitario”. “Se pensiamo al mondo della finanza e delle banche – ha proseguito Rossinon mancherebbe il materiale su cui discutere”. Per il presidente della Toscana da una parte c’è “il capitalismo dinamico che è un nostro riferimento”, dall’altra c’è invece “quel capitalismo parassitario, di vicinanza, di rendita che impedisce al nostro Paese un pieno sviluppo”.

Tra i tanti temi affrontati c’è stato poi quello della ‘verità‘, di cui Gramsci scrive nel Quaderno 6, quando critica l’essenzialità del ‘mentire‘ per l’arte politica. “Credo – ha detto Rossiche anche questo sia un elemento di riflessione in un’epoca in cui la politica del mentire, del dissimulare, del comunicare a prescindere sta diventando dominante. Oggi siamo oltre le fake news”. “Penso – ha continuato  – che il coraggio di mettere in campo la politica come elemento di verità, a partire dalla proposta di soluzioni durevoli ai problemi strutturali, sia per noi un punto imprescindibile”.

Un altro passaggio è stato dedicato al tema delle leadership, in particolare quando Gramsci parla di ‘cesarismo‘ che può assumere una dimensione progressiva o regressiva. “Attraverso l’insegnamento di Gramsci – ha spiegato Rossianche oggi possiamo valutare le leadership e come queste agiscono e si manifestano. Purtroppo verrebbe da dire che oggi in politica di ‘Cesari’ regressivi ne abbiamo tanti”.

Un altro aspetto importante e quantomai interessante del pensiero gramsciano riguarda lo ‘spirito di scissione’. Si può dire – ha sottolineato Rossiche Gramsci anche qui distingue tra scissione progressiva e scissione regressiva, cioè limitata al ceto politico. Dobbiamo  essere parte della società, dobbiamo prendere l’iniziativa, non subirla. E’ un compito difficile ma necessario: se resti ceto politico resti parte del problema e non della soluzione”.

L’INTERVENTO COMPLETO (PER PUNTI)

Gramsci classico del Novecento e la sua attualità

Gramsci è un autore di cui oggi si parla troppo poco. Quest’anno ricorre l’ottantesimo anniversario della sua morte e per questo sono state organizzate molte occasioni importanti e meritorie per ricordarlo. Molti sforzi sono stati fatti per ricostruire la sua vita, in particolare alcuni aspetti della sua vicenda carceraria. Questo è molto importante, ma non è sufficiente. Antonio Gramsci, uno degli autori italiani più noti e studiati al mondo, dovrebbe essere letto e conosciuto di più nel nostro paese, da parte dei giovani studiosi, ma non solo: anche fuori dalla cerchia degli esperti, da chi vuole fare politica e sopratutto da parte di chi come noi vuole costruire una nuova forza che possa dirsi socialista. Se questo è il nostro intento non possiamo non confrontarci con un autore fondamentale per la nostra cultura politica.

Naturalmente, dobbiamo ricordarci che il tempo in cui Gramsci scriveva e operava era profondamente diverso da quello in cui viviamo. Non possiamo dunque trovare ricette già pronte o trasporre in maniera troppo precipitosa le sue analisi e le sue soluzioni nel presente. Gramsci è un classico del Novecento, ma come tutti i classici parla anche al di là della sua epoca. Sta a noi trarre da lui sopratutto uno stile, una modalità di analisi di cui, in un tempo come il nostro in cui la politica si riduce spesso a “piccola politica” – avrebbe detto Gramsci – abbiamo un disperato bisogno.

Il metodo gramsciano di analisi dei rapporti di forza socio-economico-politici e il politicismo attuale

Basta pensare, ad esempio, alle indicazioni fornite nel Quaderno 13 (le “noterelle sul Machiavelli”) dedicate all’analisi dei rapporti di forza delle situazioni politiche, nei quali Gramsci raccomanda di distinguere tre “momenti o gradi”:

Il primo:

1) Un rapporto di forze sociali strettamente legato alla struttura, obiettivo, indipendente dalla volontà degli uomini […] Questo rapporto è quello che è, una realtà ribelle: nessuno può modificare il numero delle aziende e dei suoi addetti, il numero delle città con la data popolazione urbana ecc. […]

Il secondo:

2) Un momento successivo è il rapporto delle forze politiche, cioè la valutazione del grado di omogeneità, di autocoscienze e di organizzazione raggiunto dai vari gruppi sociali. Questo momento può essere a sua volta analizzato e distinto in vari gradi […] il primo e più elementare è quello economico-corporativo: un commerciante sente di dover essere solidale con un alto commerciante, un fabbricante con un altro fabbricante ecc. […] Un secondo momento è quello in cui si raggiunge la coscienza della solidarietà di interessi tra tutti i membri del gruppo sociale, ma ancora nel campo meramente economico. […] Un terzo momento è quello in cui si raggiunge la coscienza che i propri interessi corporativi, nel loro sviluppo attuale e avvenire, superano la cerchia corporativa, di gruppo meramente economico, e possono e debbono divenire gli interessi di altri gruppi subordinati. Questa è la fase più schiettamente politica, che segna il netto passaggio dalla struttura alla sfera delle superstrutture complesse, è la fase in cui le ideologie germinate diventano “partito”, vengono a confronto ed entrano in lotta […]

Il terzo:

3) Il terzo momento è quello del rapporto delle forze militari, immediatamente decisivo volta per volta”

Ho voluto leggere questi lunghi estratti perché non solo penso che dobbiamo tornare a confrontarci direttamente con questi testi, ma anche perché mi sembra un buon punto di partenza per quello che dobbiamo discutere oggi.

Se sentiamo la necessità di momenti di approfondimento, di riflessione come questo forse è anche perchè, quando oggi si parla di politica, nei partiti, ma anche sui giornali, si tende spesso a vedere soltanto il terzo elemento, quello che Gramsci chiama, con una metafora il “rapporto delle forze militari” e che noi potremmo definire la “politica del giorno per giorno”, le vicende quotidiane dei partiti e delle personalità politiche. Ma, se a questa politica quotidiana manca il retroterra fornito dai primi due punti evocati da Gramsci, ovvero dall’analisi economica e dalla capacità di interpretare forze reali presenti nella società e di organizzarle, dando loro coscienza, ecco allora che essa decade a personalismo, retroscena, manovra politicista.
Per questo io credo che la prima domanda che dobbiamo porci oggi è: come ridare alla politica quella profondità, quella rappresentatività e quella ricchezza che il passo gramsciano evoca?

Parzialità / egemonia

Per Gramsci la politica è, innanzitutto – e questo va ricordato – politica di una parte. Sono i gruppi sociali gli attori della politica. La politica non è fatta da generici cittadini, ma da uomini e donne concreti, in differenti condizioni sociali ed economiche, in differenti rapporti economici e lavorativi, che possono essere più o meno consapevoli della propria situazione comune. Acquisire questa consapevolezza è il punto di partenza per essere politicamente efficaci, per poter agire collettivamente nel mondo “grande e terribile”. Riconoscere nella propria condizione individuale degli elementi, degli interessi, delle aspirazioni che ci ricollegano agli altri è l’inizio della politica come impresa collettiva. Si tratta del “progressivo acquisto della coscienza della propria personalità storica”, che procede di pari passo con l’organizzazione che un gruppo sociale si dà. Se guardiamo al mondo del lavoro frammentato di oggi, alle nuove forme di sfruttamento proprie della gig economy, di parte del capitalismo delle piattaforme, ma anche alla condizione di irregolarità che purtroppo è sempre più diffusa in molte parti del mercato del lavoro e anche tra molti immigrati “invisibili”, se pensiamo a tutto questo ci rendiamo conto di quanto una tale consapevolezza sarebbe oggi necessaria.

Ma questa consapevolezza di essere parte è solo il punto di partenza. Quella parte, per produrre egemonia – come sapete un concetto fondamentale nel pensiero di Gramsci – deve costruire alleanze con altri gruppi sociali, deve proporsi come portatrice di una visione universale, valida per la società nel suo complesso. Qui vediamo un altro elemento di maggiore ricchezza dell’idea gramsciana di politica rispetto a quella che siamo abituati a conoscere oggi. La politica è, certo, lotta di potere, ma questa lotta, se viene intesa seriamente, si declina come una lotta di visioni della società contrapposte, di quelle che Gramsci chiamerebbe “ideologie”, con quella che oggi si considera una parolaccia e che invece indica semplicemente l’insieme delle convinzioni, dei valori, del senso comune di un gruppo sociale. Se quel gruppo rinuncia a riflettere, a sviluppare proprie idee autonome, esso finirà per mutuare le idee prodotte da altri, divenendo così subalterno. È quello che è successo alla nostra parte negli ultimi decenni.

L’egemonia neoliberista

La rivoluzione neoliberista può essere vista, come ha tentato di fare il sociologo britannico Stuart Hall, come un mutamento di egemonia in senso gramsciano. Idee elaborate in ristretti circoli intellettuali, ben finanziati ma culturalmente isolati, hanno trovato nella crisi degli anni Settanta l’occasione per imporsi.
Vi fu un insieme di circostanze che segnò la crisi del blocco sociale che era stato alla base del modello di sviluppo dei “trenta gloriosi”, del trentennio di sviluppo economico, compromesso tra capitalismo e democrazia, allargamento delle basi della partecipazione.
La decisione di Nixon di bloccare la convertibilità del dollaro in oro segnò la crisi del sistema monetario di Bretton Woods e, andando verso un sistema di cambi flessibili inaugurò una fase di maggiore instabilità. Gli shock petroliferi spinsero l’inflazione nei paesi occidentali e aumentarono i costi, spingendo a una profonda ristrutturazione del sistema produttivo mirante a un sostanziale incremento della produttività. Al tempo stesso, il grande afflusso di “petrodollari” verso i paesi produttori di petrolio fu largamente reinvestito nelle banche occidentali, creando una forte domanda di impieghi che alimentò una rapida crescita del settore finanziario.
In questo contesto di profonda instabilità, che configurava quella che Gramsci avrebbe definito una “crisi organica”, che investiva, cioè, non soltanto l’economia ma anche i sistemi politici e le società stesse nei loro aspetti anche antropologici e culturali, il neoliberismo seppe dare l’idea di essere in possesso della soluzione. Deregolamentazioni, liberalizzazioni dei movimenti dei capitali, privatizzazioni, detassazioni: questo era l’insieme di ricette che avrebbero permesso alle società occidentali di ritrovare la via dello sviluppo. Sarebbe stato uno sviluppo per pochi? In parte, ma comunque qualcosa sarebbe “sgocciolato” – come sosteneva la teoria reaganiana del trickle down o la successiva metafora della marea che solleva tutte le barche – anche verso la parte più povera della società. Si spezzava così quel blocco sociale fatto di lavoratori, classi medie e classi subalterne che aveva beneficiato del modello precedente. A beneficiare di questa rivoluzione – oggi lo sappiamo – sono stati in pochi, almeno per quanto riguarda il mondo occidentale. Ma ciò che la rese possibile e che le fornì il consenso politico affinché potesse essere realizzata fu una profonda e capillare trasformazione culturale, simbolica e valoriale, che fece sì che anche classi medie e lavoratrici fossero largamente permeate dalla nuova ideologia. “La società non esiste, esistono solo individui”, è la nota frase di Margaret Thatcher. È un manifesto politico, ma è anche la sintesi dello spirito di un’epoca e di una rivoluzione egemonica riuscita. Se noi accettiamo questo principio, se accettiamo l’idea che gli individui si possano pensare senza e contro la società, abbiamo già perso. Da qui dobbiamo ripartire per elaborare una cultura politica alternativa.

La crisi economica iniziata nel 2007-2008 sembrava aver segnato la crisi dell’egemonia neoliberista (che qui in Europa, come giustamente ricorda il prof. Galli, si è declinata nella forma dell’ordoliberismo). Da un lato questo è avvenuto, nel senso che il vecchio modello non sembra più avere la forza propulsiva e persuasiva che possedeva prima della crisi. Eppure, finora un vero modello alternativo non si è ancora affermato. Siamo in una di quelle situazioni in cui, per citare ancora Gramsci, “il vecchio muore e il nuovo non può nascere”. “In questo interregno”, avverte sempre Gramsci, “si verificano i fenomeni morbosi più svariati” e direi che è una descrizione che si attaglia bene al tempo in cui stiamo vivendo.

Americanismo e fordismo: capitalismo e rendita. Capitalismo “buono” e “parassitario”

Gramsci stesso viveva e pensava nel quadro della crisi che ha contribuito a definire il mondo in cui siamo vissuti: il periodo tra le due guerre mondiali e la Grande Depressione degli anni Trenta. Di grandissimo interesse, da questo punto di vista, sono le analisi che propone nel celebre Quaderno 22, Americanismo e fordismo, in cui cerca di individuare i tratti del nuovo sistema economico e sociale in via di affermazione, che rappresentava la risposta ad alcuni dei problemi emersi nell’ambito del sistema capitalistico. Rispetto a tale soluzione che, pur fra limiti e contraddizioni, presentava elementi di progressività, Gramsci esaminava il fascismo come espressione differente della crisi, risultato anche di un capitalismo asfittico nel quale la rendita manteneva, a diversi livelli un’importanza preponderante. Il tentativo di Gramsci era quello di cogliere e di analizzare le tendenze che vedeva operanti nel proprio tempo, cercando di scorgerne l’elemento progressivo e razionale, il cui sviluppo poteva essere posto come obiettivo di una forza politica che al tempo stesso contrastasse gli elementi di sfruttamento, arretratezza, irrazionalità, talvolta consapevolmente promossi da classi dominanti interessate alla preservazione della propria posizione e del proprio potere.

Anche questa indicazione a mio parere conserva una vitalità e un’attualità per i nostri compiti odierni. Dovremmo oggi compiere un’analisi delle attuali “tendenze del capitalismo italiano” (e non solo), per riprendere il titolo di un celebre convegno organizzato dall’Istituto Gramsci nel 1962. All’interno di questo dovremmo proporci di identificare le parti portatrici di una spinta innovativa, che desiderano investire e creare occupazione, e costruire con questi un’alleanza contro invece quel capitalismo “parassitario”, fondato sulla rendita che purtroppo riveste grande importanza nel nostro paese ma anche a livello globale.

Se adottiamo questa prospettiva molti fenomeni negativi che stiamo vivendo diventano più intelligibili. Un’occupazione instabile e precaria, un’immigrazione non regolata e non accompagnata da serie politiche di integrazione che alimenta un bacino di irregolarità a cui si attinge per il lavoro nero e per la manodopera utile alla criminalità organizzata: tutto questo è funzionale ad un capitalismo asfittico, che cerca un modello di sviluppo basato sulla riduzione dei costi invece che sugli investimenti. Purtroppo in questo rivediamo vecchie tare della nostra borghesia, che troviamo ben descritte in tante pagine gramsciane. Questo rende tanto più indispensabile una politica forte in grado di contrastare queste tendenze e di impostare un modello economico in grado di creare buona occupazione, di richiedere e produrre lavoratori qualificati, di tenere conto della problematica ecologica e di favorire un modello positivo e sostenibile di integrazione dei lavoratori immigrati.

Dire la verità in politica

Tutto questo richiede autonomia e la capacità di “dire la verità”, di avere proprie idee che non si pieghino alle necessità demagogiche del momento. A questo proposito vorrei citare un bel passo tratto dal Quaderno 6:

È opinione molto diffusa in alcuni ambienti (e questa diffusione è un segno della statura politica e culturale di questi ambienti) che sia essenziale dell’arte politica il mentire, il sapere astutamente nascondere le proprie vere opinioni e i veri fini a cui si tende, il saper far credere il contrario di ciò che realmente si vuole ecc. ecc. L’opinione è tanto radicata e diffusa che a dire la verità non si è creduti. […] In politica si potrà parlare di riservatezza, non di menzogna nel senso meschino che molti pensano: nella politica di massa dire la verità è una necessità politica, precisamente”.

Questo è tanto più importante e necessario nelle fasi storiche in cui sembra affermarsi un’egemonia contraria: pensiamo ad esempio al clima che si sta determinando nell’opinione pubblica sul tema dell’immigrazione, clima che è il risultato del fatto che le politiche economiche attualmente condotte non riescono a dare una soluzione duratura e strutturale alla crisi economica e nell’immigrazione viene indicata una valvola di sfogo al disagio della società. In casi come questi assecondare l’opinione prevalente finisce per determinare una posizione di subalternità nei confronti dell’avversario, favorendone in ultima analisi l’affermazione.

Il ruolo delle leadership: cesarismo progressivo e regressivo

La capacità di svolgere un ruolo più o meno progressivo si riflette anche nel ruolo delle personalità, diremmo oggi delle leadership politiche, di cui Gramsci riconosce il ruolo e l’importanza, salvo poi valutarne concretamente l’azione, le finalità e il modo in cui esercitano la loro funzione di guida. Cito sempre dai Quaderni:

Ci può essere un cesarismo progressivo e uno regressivo e il significato esatto di ogni forma di cesarismo, in ultima analisi, può essere ricostruito dalla storia concreta e non da uno schema sociologico. È progressivo il cesarismo, quando il suo intervento aiuta la forza progressiva a trionfare sia pure con certi compromessi e temperamenti limitativi della vittoria; è regressivo quando il suo intervento aiuta a trionfare la forza regressiva, anche in questo caso con certi compromessi e limitazioni, che però hanno un valore, una portata e un significato diversi che non nel caso precedente. Cesare e Napoleone I sono esempi di cesarismo progressivo. Napoleone III e Bismarck di cesarismo regressivo”.

Grande politica e piccola politica

Oggi, verrebbe da dire, abbiamo di fronte, purtroppo, pochi esempi di cesarismo progressivo e molti che invece sembrano assumere le caratteristiche del cesarismo regressivo, che, aggiungerei, praticano quella che Gramsci definisce “piccola politica”, che descrive nel Quaderno 13, nella nota 5:

“Grande politica (alta politica) – piccola politica (politica del giorno per giorno, politica parlamentare, di corridoio, d’intrigo). La grande politica comprende le quistioni connesse con la fondazione di nuovi Stati, con la lotta per la distruzione, la difesa, la conservazione di determinate strutture organiche economico-sociali. La piccola politica le quistioni parziali, e quotidiane che si pongono all’interno di una struttura già stabilita per le lotte di preminenza tra le diverse frazioni di una stessa classe politica.”

Oggi ci troviamo di fronte all’universale prevalere della piccola politica: è difficile anche solo discutere questioni più generali come quelle che abbiamo accennato prima. Gramsci aggiunge però un’altra osservazione interessante: “è pertanto grande politica il tentare di escludere la grande politica dall’ambito interno della vita statale e ridurre tutto a piccola politica”. Il fatto che non sia possibile porre determinate questioni politiche assume di fatto una valenza conservatrice, impedendo che gli assetti fondamentali dell’ordinamento sociale ed economico attuale possano essere messi in discussione.

Lo spirito di scissione

Di fronte a questa situazione può sembrare molto difficile trovare una via d’uscita. Gramsci nel Quaderno 3 ci fornisce uno spunto interessante, che mi è capitato di evocare anche in passato:

“Cosa si può contrapporre, da parte di una classe innovatrice, a questo complesso formidabile di trincee e fortificazioni della classe dominante? Lo spirito di scissione, cioè il progressivo acquisto della coscienza della propria personalità storica, spirito di scissione che deve tendere ad allargarsi dalla classe protagonista alle classi alleate potenziali: tutto ciò domanda un complesso lavoro ideologico, la prima condizione del quale è l’esatta conoscenza del campo da svuotare del suo elemento di massa umana”.

Nell’affermazione dell’autonomia di un gruppo sociale si può trovare l’energia per impostare un lavoro di lungo periodo che abbia come obiettivo la costruzione di un punto di vista autonomo.
Ma bisogna intendersi su quello che intendiamo per “scissione” e sulla difficoltà, le complessità e le contraddizioni di questo tipo di processo.

Postilla sulla scissione di Livorno e l’autocritica di Gramsci

Parlando del Gramsci politico del periodo pre-carceraria, va ricordato che egli, pur partecipando alla scissione di Livorno, retrospettivamente ebbe parole dure su di essa, dando prova di sincerità e una lezione sull’importanza di dire la verità a se stessi, rifiutando l’autoinganno e l’uso strumentale delle teorie. Come scrisse in un articolo del 1924, pubblicato su L’Ordine Nuovo: “Fummo travolti dagli avvenimenti, fummo senza volerlo un aspetto della dissoluzione generale della società italiana, diventata un crogiolo incandescente…”. In quello stesso articolo Gramsci riconosceva autocriticamente: “non avevamo saputo tradurre in linguaggio comprensibile a ogni operaio e contadino italiano il significato di ognuno degli avvenimenti italiani degli anni 1919-20: non abbiamo saputo, dopo Livorno porre il problema del perché il Congresso avesse avuto quella conclusione”. In un frammento precedente, addirittura Gramsci afferma che la scissione di Livorno sarebbe stata “il più grande trionfo della reazione” perché avrebbe causato “il distacco della maggioranza del proletariato italiano dalla Internazionale comunista” rendendolo “disperso, isolato, individui, non classe che sente di essere una unità e aspira al potere”.

Conclusione: scissione di “massa” e scissione di ceto politico

Da questo si comprende che la “scissione”, per Gramsci, è progressiva ed utile se in essa si realizza la presa di coscienza politica, l’acquisizione di un punto di vista autonomo di un gruppo sociale, di una parte significativa della società, se essa non si riduce unicamente ad essere la decisione autoreferenziale di una porzione di ceto politico. Perché questo avvenga occorre, come sottolinea Gramsci nel brano dei Quaderni che ricordavo, che questa parte di società si riconosca in un’identità, in una cultura politica chiara e netta, che sia l’inizio di un percorso, in cui assuma una parte fondamentale anche quello “studio”, quella conoscenza dell’organizzazione della società che è necessario acquisire.
Gramsci svolse questo lavoro, in condizioni difficilissime, in riferimento alla società a lui contemporanea. Anche oggi, si parva licet componere magnis, sarebbe necessario un lavoro analogo rivolto al mondo contemporaneo che indaghi le caratteristiche odierne del sistema produttivo, le idee prevalenti, i meccanismi di formazione della cultura popolare, le basi del senso comune, il funzionamento del sistema dell’informazione e che si interroghi su come mettere questa conoscenza alla base di un progetto di cambiamento della realtà.

Per questo iniziative come quella di oggi sono straordinariamente importanti e preziose.

Commenti