Migranti

“Brutti, sporchi e cattivi”

La recente proposta del ministro Minniti di rivedere e riorganizzare i C.I.E. ha spostato tutta l’attenzione, come era prevedibile vista la titolarità dello stesso del ministero degli Interni, sul problema di sicurezza connesso al tema immigrazione. Focalizzare il tutto solo ed esclusivamente su questo aspetto, rischia di dar fiato e legittimità alle inaccettabili e pericolose posizioni della destra xenofoba interna che spazia dalla Lega sino a Beppe Grillo. Che occorra una seria e severa azione di prevenzione e contrasto a potenziali fenomeni di criminalità, in tutte le sue declinazioni, è fuori discussione. Garantire la sicurezza non solo dei cittadini italiani ma dei migranti stessi, è assolutamente prioritario.

Il “come” è elemento caratterizzante e discriminante tra una visione progressista o, al contrario, reazionaria. E qui, appunto, occorre seriamente interrogarsi sui vari centri, CEI o CARA, di “prima accoglienza”. Ha oggettivamente ragione Enrico Rossi quando denuncia che nella filiera che dovrebbe sovraintendere alle politiche migratorie, ciò che sino ad oggi ha funzionato, e bene, sono il primo e l’ultimo anello: il soccorso e proprio la sicurezza garantita dalle varie polizie di Stato.

Sono le fasi intermedie che hanno mostrato evidenti limiti rivelandosi, alla fine, fallimentari. Per diversi e seri motivi. L’inchiesta di qualche mese fa di Fabrizio Gatti, pubblicata da L’Espresso, ha reso a tutti nota la mostruosità delle condizioni di vita e di sicurezza del CARA di Foggia: 1500 disperati costretti in condizioni igienico–sanitarie inaccettabili e oggetto di lusinghe, a volte minacce, e di reclutamento da parte della criminalità foggiana. Il problema è che la fase dell’accoglienza intercorrente tra il momento della formalizzazione della domanda di asilo e la decisione nel merito della stessa, riveste un ruolo chiave. La lunga attesa, irrispettosa del termine stabilito per legge, per la convocazione di fronte alla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, dovuta all’ostinato sottodimensionamento del numero delle Commissioni necessarie per far fronte alle domande presentate, determina situazioni di sovraffollamento nei centri preposti all’accoglienza nonché uno stallo nel sistema di turn over che dovrebbe caratterizzare questa fase. E in questa fase il migrante, il richiedente asilo è solo. Le giornate passano, l’una dopo l’altra, nell’attesa che una decisione si compia. Attesa che può durare un tempo indefinito e che si colloca in un momento di estrema fragilità per chi, donne, uomini, bambini, ha compiuto un viaggio in condizioni disperate in cui, non è raro, ha perso qualche caro, è fuggito da una persecuzione personale o da un conflitto armato, ha lasciato alle spalle la sua famiglia e la sua terra. Necessita di cure sanitarie, di supporto psicologico. Si ritrova unicamente in un “centro” dove gli sono garantiti, e in quali condizioni è noto, “vitto e alloggio”. E’ evidente che l’inserimento in tali strutture non possa garantire adeguatamente la presa in carico di tali situazioni. E’ la conformazione stessa di questi centri a non poter consentire un’assistenza attenta ai bisogni della persona. Gli stessi SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati) che avrebbero dovuto essere una rete di centri di “seconda accoglienza” favorendo il percorso di integrazione (studio della lingua, formazione professionale, ecc.), hanno dovuto supplire alle carenze del sistema “primario”. Non irrilevante, poi, la circostanza che la maggior parte dei CARA siano stati realizzati nelle regioni del sud del Paese dove le condizioni socio-economiche sono già drammatiche.

Pensare, ad esempio, ad un percorso di inserimento lavorativo è, oggettivamente, ridicolo prima ancora che difficile. Anzi, la presenza di migliaia di migranti su queste aree ha provocato tensioni fortissime con le popolazioni residenti per la gioia e la prosperità di “caporali” e imprenditori senza scrupoli. Si aggiunga, quale chiosa a tutto quanto, le centinaia di milioni di euro investiti su ciò che doveva essere e non è stato. Soldi che, in maniera anche poco trasparente, hanno fino ad oggi arricchito i soggetti gestori delle strutture le cui competenze sono spesso discutibili. La strada, quindi, non può essere che quella di bonificare una palude fatta di drammi personali, inefficienze burocratiche, interessi economici di pochi e potenziali interessi criminali.

Investire su strutture, personale e competenze che in tempi rapidi stabilisca chi ha diritto di asilo; piccoli centri gestiti direttamente dai Comuni elevando, di fatto, l’idea originale degli SPRAR circa il percorso di integrazione, non più su base volontaria ma strutturata; investire sui saperi di quanti possono effettivamente essere di supporto ai migranti (mediatori culturali, giuristi, operatori socio-sanitari, psicologi, ecc.). Infine, last but non least, una forte iniziativa politica per rivedere profondamente il Regolamento di Dublino e le sue inaccettabili limitazioni alla mobilità dei richiedenti. Insomma, caro Ministro Minniti, Zaia e Rossi non sono la stessa cosa. Bisogna decidere a chi dare ascolto.

Commenti