I want

I want my democracy back

Make America Great Again” lo slogan di Trump nella corsa alla Casa Bianca risuona da un lato dell’Atlantico, mentre a fargli eco c’è il britannico “I want my Country back” che ha guidato la Brexit e che a sua volta riecheggia l’apostrofe thatcheriana all’Europa “I want my money back”.

La sensazione è che in tutto l’Occidente si rivogliano indietro delle cose. Ma quali? Due su tutte: la sovranità popolare e degli standard qualitativi di vita che sembrano irreplicabili. Non si tratta né di nostalgia per modelli di democrazia mitizzati e mitizzabili da Grecia antica, né di rimpianto per un Eldorado perduto; più semplicemente, esiste un diffuso sentimento di arretramento delle proprie possibilità di vita. Di vita in comune perché nella società si percepisce il peso sempre minore che le indicazioni espresse col voto hanno nei processi decisionali, e di vita individuale a causa del crescere delle fatiche per “tirare avanti”. Le esigenze diffuse sono tanto moderate – una vita dignitosa, la possibilità di mandare i figli a scuola, di avere cure di base ecc. – quanto estreme le ricette politiche che sembrano in grado di rispondervi.

I benpensanti di tutto Occidente sembrano troppo impegnati a scandalizzarsi per i consensi crescenti delle forze xenofobo-nazionaliste e troppo assorti nella costruzione di improbabili alleanze “dei democratici” trasversali, per chiedersi il perché di questo successo al retrogusto di anni ‘30. Buona parte dell’elettorato, quello più sensibile alla proposta politica di quelli che vengono etichettati come “nuovi fascisti”, non riesce a focalizzare con lucidità chi ha reso peggiori le proprie condizioni di vita, e si getta così alla ricerca del come. Cercando un modo quanto più possibile immediato di riavere indietro ciò che ha perduto, diventa facile preda di ricette che vedono nel diverso il nemico e nel ritorno alle frontiere nazionali la soluzione.

La democrazia però non si salva da sola, né lo fa il multiculturalismo, né la libertà di movimento, che non sono più considerati buoni in modo autoevidente, ma le cui ragioni devono essere riscoperte, rinvigorite e rideclinate quotidianamente. Se c’è qualcosa a cui fanno danno le alleanze elettorali e di pensiero dei “democratici” contro i “fascisti”, è proprio la tenuta democratica stessa. Inscenando una dialettica fra difensori dell’“alto” (l’establishment, la globalizzazione finanziaria selvaggia, le banche, i politici avulsi dai loro elettori ecc.) e difensori del “basso” (la pancia del paese, la classe media che si impoverisce, gli esodati ecc.) consegnano ai secondi l’egemonia politica del malessere sociale che cresce proprio a causa delle politiche economiche adottate dai primi.

La tenuta democratica è legata a doppio filo agli standard qualitativi di vita di una classe media che sta scomparendo a causa dell’aumento delle diseguaglianze. Sono quelli che vanno recuperati, aumentando il deficit per spese di welfare, di riconversione energetica e riqualificazione in infrastrutture che in queste opere impieghino forza lavoro qualificata e non (tanto per citare alcune misure di buon senso). Dovunque in Occidente l’ondata di malessere propria della classe media che si impoverisce si sta declinando in voti politici a formazioni di estrema destra, in un aumento preoccupante della violenza xenofoba e in risultati referendari dettati più dal comprensibile istinto anti-sistema che da un’attenta valutazione del quesito. I cittadini rivogliono il proprio potere di scelta democratica perché rivogliono condizioni di vita dignitose, e laddove non vi sia un’opzione di sinistra credibile, quando scelgono lo fanno in favore di coloro che ritengono essere più idonei a combattere un sistema iniquo e inadeguato alle proprie esigenze.

Samuel P. Huntington, autore de “Lo Scontro delle Civiltà“, teorizzava che i grandi assi di conflitto mondiale si sarebbero definiti sulle faglie di divisione di variabili pre-politiche: la religione, le identità tradizionali. Lo stesso Huntington, quasi un ventennio prima, sosteneva, ne La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione trilaterale, che la democrazia fosse soggetta a crisi non per un deficit ma per un eccesso della stessa. Per prevenire questa crisi sarebbe stato necessario espungere dal circuito politico una parte di cittadini. Oggi vediamo plasticamente rappresentato nella crisi dei sistemi politici occidentali il legame fra lo scontro religioso e la mancanza di un reale potere decisionale popolare, in particolare in materia di politica economica. Laddove alti tassi di astensione e disinteresse per il discorso pubblico si intersecano a proposte politiche o di indirizzo neoliberale in difesa degli interessi del mercato finanziario più che del benessere dei cittadini, o proposte “anti-establishment” che fanno della contrapposizione basso vs. alto il loro asse portante.

Il dibattito sull’opportunità o meno di perpetuare il suffragio universale lasciando decidere, in materie quali ad esempio la permanenza in Unione Europea, anche a persone scarsamente alfabetizzate o di ceto medio-basso, continua a mostrare che l’errore di dare retta ad Huntington è ancora attuale. Coloro che vogliono ammettere al voto solo i “benpensanti” pretendono contemporaneamente di ridurre la partecipazione democratica e la sovranità popolare, sconfiggendo allo stesso tempo le formazioni euroscettiche xenofobe, evidenziando con sconfortante chiarezza che essi non si rendono ancora conto che solo elevando culturalmente e fornendo gli strumenti materiali e immateriali di sostentamento ed emancipazione alla più ampia parte possibile della popolazione, sia possibile salvaguardare i sistemi liberaldemocratici e sconfiggere gli estremisti.

Il dilemma non è democrazia o barbarie, ma socialismo o barbarie. Smettere di ignorare che questi siano i termini è il vero nodo politico; esso è tutto in capo non a chi non possieda gli strumenti per comprenderlo, ma a chi si crede benpensante e benpensante non è.

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