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Parole di pietra contro l’orrore

«Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano»: comincia così un celebre aforisma (che molti attribuiscono a Bertolt Brecht, mentre altri – forse più fondatamente – negano questa paternità e sono più propensi a riconoscerla ad altri). In ogni caso, esso così continua: «Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare». Una spirale inarrestabile, che non lasciava scampo.

Così oggi: Matteo Salvini, Ministro dell’Interno del Governo (ufficialmente presieduto da Giuseppe Conte) e capo della Lega, lo Scelba dei giorni nostri (o forse peggio), ha detto di voler “censire” i Rom: forse non sa, o finge di non sapere, che censire per etnia, o per convinzione politica, o per appartenenza religiosa o per qualunque dei caratteri “sensibili” delle persone, singolarmente o collettivamente, è una violazione dell’art. 3 della Costituzione, che recita che “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.

Diceva Petrolini a quello che dal loggione fischiava: “Io non ce l’ho con te, ce l’’ho con quello che sta vicino a te e non ti butta di sotto”. Allo stesso modo, bisognerebbe avercela, prima ancora che con Salvini (al quale non vanno fatti sconti, sia chiaro), con quelli che non inorridiscono e non gli urlano – magari accompagnando con qualche colorita mala parola – di non permettersi, lui uomo delle Istituzioni (ahinoi!), di violare la Costituzione, e di non fare il razzista. Macché. Quello che lascia attoniti è che queste azioni fanno addirittura aumentare la popolarità di Salvini: lasciano sbigottiti le scene di folla acclamante alle quali le riprese televisive ci fanno assistere. Dobbiamo perciò chiederci: ma è davvero così che siamo diventati?

In un bel libro scritto da Liliana Segre con la cura di Enrico Mentana, intitolato “La memoria rende liberi”, quella donna magnifica esprime raccapriccio per ogni volta che si deve constatare l’indifferenza – quella a cui assistiamo oggi – definita come la «condizione di chi, in determinata circostanza o per abitudine, non mostra interessamento, simpatia, partecipazione affettiva, turbamento», ed ammonisce che «quando credi che una cosa non ti tocchi, non ti riguardi, allora non c’è limite all’orrore». La memoria serve appunto a riconoscere, fin dal loro primo manifestarsi, strade già orribilmente percorse, e liberarsene.

Un capitolo di quel libro è intitolato “Le parole sono pietre“, che è a sua volta il titolo di uno dei più bei libri di Carlo Levi, nel quale (nella terza parte) racconta – sono pagine davvero straordinarie, sul piano letterario e su quello civile – la storia di una madre (Francesca Serio) di una vittima di mafia (Salvatore Carnevale) che invece di piangere si era lanciata senza paura in un processo agli assassini: «le lacrime non sono più lacrime ma parole, e le parole sono pietre», scriveva Levi sommerso dall’ammirazione per quella donna «acuta, attenta, diffidente, astuta, abile, imperiosa, implacabile». Ecco: credo che oggi così dovremmo essere tutti noi, tutti coloro che non si riconoscono e non accettano di essere coinvolti in questo orrore montante. Dovremmo manifestare lo sdegno ed usare parole di pietra per condannarlo, senza timidezze e senza “fair-play“, affinché quella tremenda spirale ricordata all’inizio non venga nemmeno imboccata.

Foto in evidenza: Manoscritto di Carlo Levi “Le parole sono pietre”

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