E’ forse giunto il momento di anteporre alle sterili diatribe su quanti occupati in più o in meno ci sono una seria valutazione sulle caratteristiche del modello di sviluppo che sta seguendo il nostro paese e sulle sue ricadute sul mondo del lavoro.
Naturalmente attribuirsi – come fanno alcuni leader politici – i meriti dei posti di lavoro creati è operazione, non solo scorretta, ma anche poco riconoscente verso chi quei posti di lavoro li ha effettivamente creati, ovvero le imprese che hanno assunto.
Contrapporsi a questa rappresentazione contestando la veridicità dei dati non mi pare però ugualmente molto utile. Si possono, infatti, trovare anche dati diversi che ridimensionano in parte i successi dichiarati, ma alcuni risultati sono fuori discussione: l’occupazione è aumentata in modo significativo dall’inizio del 2014; inoltre una parte consistente di questi nuovi occupati è effettivamente a tempo indeterminato (naturalmente con il nuovo concetto di tempo indeterminato che si ha dopo l’abolizione dell’art. 18). Diverso è il discorso sugli avviamenti, perché i contratti a tempo determinato possono dar luogo a più di un avviamento nel corso dell’anno per cui è del tutto plausibile che, tra i nuovi contratti, quelli a tempo determinato siano largamente prevalenti.
Quindi, perlomeno dal punto di vista quantitativo, il mercato del lavoro è davvero in ripresa. Se però si vuol sottintendere che ciò è avvenuto per merito del governo si dovrebbe dimostrare che effettivamente le nuove assunzioni dipendono tutte dalle riforme fatte (cosa assai improbabile) e non dalle risposte delle imprese alla positiva evoluzione del ciclo (cosa assai più probabile). Peraltro, la dimensione della ripresa è stata in Italia minore che negli altri paesi, quindi se il merito fosse dei governi dovremmo dire che i nostri sono stati meno capaci degli altri di sostenerla: ma anche questo sarebbe scorretto.
Oltretutto non possiamo dimenticare che veniamo da una crisi che ha “bruciato”tra il 2008 ed il 2013 ben 4 milioni di ore di lavoro (corrispondenti ad oltre due milioni di occupati a tempo pieno). Gli occupati persi sono stati “solo” un milione per il fatto che a molti è stato ridotto l’orario di lavoro e la corrispondente retribuzione. Certo, meglio aver scaricato gli effetti della crisi riducendo poco il reddito di molti, piuttosto che scaricarla integralmente su quello di pochi, ma è indubbio che in questi anni il lavoro è stato pesantemente colpito; è nata, infatti, una nuova categoria: gli working poors.
Dopo una caduta così drastica della quantità di lavoro assorbita è del tutto normale che con una ripresa – anche se debole – le imprese si riprendano parte del lavoro cui avevano rinunciato. Si è, quindi, recuperato il numero degli occupati persi, ma siamo ancora lontani dell’orario medio di lavoro che c’era prima della crisi (mancano ancora oltre 80 ore l’anno): quindi gli working poors esistono ancora. Non solo, ma se è vero che il numero di occupati è ritornato sui livelli pre-crisi, è bene ricordare che vi sono ancora oltre 1,5 milioni di disoccupati in più rispetto ad allora; tra questi molti giovani.
Quindi, i problemi generati dalla crisi sono ancora lontani da essere risolti, ma è indubbio che lo scenario è tornato ad essere positivo e che quindi si prospettano tempi migliori; meno certo è di chi sia il merito, per cui attribuirselo interamente è operazione quanto meno azzardata.
Per questo motivo invece di spartirci meriti o colpe sarebbe meglio riflettere sulle caratteristiche di questa ripresa per capire se sostenerle o tentare di correggerle.
Partiamo dallo scenario futuro, che può così sintetizzarsi: • siamo ancora all’interno di un modello trainato dalle esportazioni, cui difficilmente potrà affiancarsi nei prossimi anni una ripresa della domanda interna (per gli effetti dell’austerity), a meno di una autonoma, ma improbabile, ripartenza degli investimenti; • la produttività non è destinata a crescere altrimenti non si spiegherebbe perché crescita del PIL e dell’occupazione siano quasi analoghe.
Occorre, quindi, comprendere quali siano le condizioni che tengono assieme questo scenario; in altre parole, se è vero che le esportazioni resteranno il volano principale della nostra crescita, come è possibile accrescerle se la produttività non aumenta?
Temo che la risposta sia semplice: abbassando i costi – in particolare quello del lavoro – ma anche pagando meno tasse, allentando l’attenzione sulle ricadute ambientali. In fondo alcune linee di indirizzo dichiarate dai nostri governi (meno tasse, decontribuzione,..) sembrano assecondare questa impostazione.
Ma l’obiettivo di un paese sviluppato dovrebbe essere quello di favorire simultaneamente aumento della produttività e dell’occupazione; ma è solo con una crescita degli investimenti decisamente superiore a quella osservata che ciò potrà accadere.
Per questo, oltre alla imprescindibile necessità di rilanciare gli investimenti pubblici, occorre riflettere sull’uso degli incentivi che dovrebbero far sì che lavoro e capitale tornino a crescere assieme e non l’uno a scapito dell’altro come accade quando gli incentivi sono disgiunti.
Gli incentivi tendenti a ridurre il costo del lavoro (vedi decontribuzione) spingerebbero ad usare più lavoro al posto del capitale favorendo un cambiamento della composizione settoriale verso settori a maggiore intensità di lavoro a basso costo. Gli incentivi sugli investimenti (vedi industria 4.0) avrebbero il pregio di sostituire i vecchi macchinari con nuovi macchinari i quali, però, hanno una alta probabilità di essere “labour saving”.
Quindi – estremizzando – i primi favorirebbero l’aumento dell’occupazione ma non della produttività, i secondi l’aumento della produttività ma non dell’occupazione. Non che questi processi siano inutili (dal momento che potrebbero, comunque, portare ad un rinnovamento dei fattori produttivi), ma il rischio è quello di accentuare la dicotomia tra le imprese più lungimiranti (le quali si rafforzeranno con impianti più moderni, ma con scarsi contributi all’occupazione) e la parte restante del sistema (che invece potrà disporre di lavoro a costi più bassi senza ricorrere a nuovi investimenti). Una dicotomia che potrebbe portare ad un generale peggioramento delle condizioni di lavoro; preoccupazione non peregrina viste alcune recenti tendenze dell’occupazione (aumento del lavoro irregolare, riduzione dei redditi da lavoro, aumento degli infortuni, precarizzazione crescente).
Non sarebbe quindi male pensare, oltre al rilancio degli investimenti pubblici, ad incentivi che fossero particolarmente premianti se rivolti a che fa nuovi investimenti e simultaneamente assume nuovi lavoratori: ciò porterebbe ad un allargamento qualificato della base produttiva con conseguenze positive anche sulla qualità del lavoro.
Si tratta di una scommessa importante e difficile, che richiederebbe un certo impegno per impedire che si rafforzi questa pericolosa deriva che, sotto l’aumento delle quantità occupate, nasconde un pericoloso peggioramento della qualità e delle condizioni di lavoro.
Quale modello di sviluppo e quali ricadute sul mondo del lavoro
E’ forse giunto il momento di anteporre alle sterili diatribe su quanti occupati in più o in meno ci sono una seria valutazione sulle caratteristiche del modello di sviluppo che sta seguendo il nostro paese e sulle sue ricadute sul mondo del lavoro.
Naturalmente attribuirsi – come fanno alcuni leader politici – i meriti dei posti di lavoro creati è operazione, non solo scorretta, ma anche poco riconoscente verso chi quei posti di lavoro li ha effettivamente creati, ovvero le imprese che hanno assunto.
Contrapporsi a questa rappresentazione contestando la veridicità dei dati non mi pare però ugualmente molto utile. Si possono, infatti, trovare anche dati diversi che ridimensionano in parte i successi dichiarati, ma alcuni risultati sono fuori discussione: l’occupazione è aumentata in modo significativo dall’inizio del 2014; inoltre una parte consistente di questi nuovi occupati è effettivamente a tempo indeterminato (naturalmente con il nuovo concetto di tempo indeterminato che si ha dopo l’abolizione dell’art. 18). Diverso è il discorso sugli avviamenti, perché i contratti a tempo determinato possono dar luogo a più di un avviamento nel corso dell’anno per cui è del tutto plausibile che, tra i nuovi contratti, quelli a tempo determinato siano largamente prevalenti.
Quindi, perlomeno dal punto di vista quantitativo, il mercato del lavoro è davvero in ripresa. Se però si vuol sottintendere che ciò è avvenuto per merito del governo si dovrebbe dimostrare che effettivamente le nuove assunzioni dipendono tutte dalle riforme fatte (cosa assai improbabile) e non dalle risposte delle imprese alla positiva evoluzione del ciclo (cosa assai più probabile). Peraltro, la dimensione della ripresa è stata in Italia minore che negli altri paesi, quindi se il merito fosse dei governi dovremmo dire che i nostri sono stati meno capaci degli altri di sostenerla: ma anche questo sarebbe scorretto.
Oltretutto non possiamo dimenticare che veniamo da una crisi che ha “bruciato”tra il 2008 ed il 2013 ben 4 milioni di ore di lavoro (corrispondenti ad oltre due milioni di occupati a tempo pieno). Gli occupati persi sono stati “solo” un milione per il fatto che a molti è stato ridotto l’orario di lavoro e la corrispondente retribuzione. Certo, meglio aver scaricato gli effetti della crisi riducendo poco il reddito di molti, piuttosto che scaricarla integralmente su quello di pochi, ma è indubbio che in questi anni il lavoro è stato pesantemente colpito; è nata, infatti, una nuova categoria: gli working poors.
Dopo una caduta così drastica della quantità di lavoro assorbita è del tutto normale che con una ripresa – anche se debole – le imprese si riprendano parte del lavoro cui avevano rinunciato. Si è, quindi, recuperato il numero degli occupati persi, ma siamo ancora lontani dell’orario medio di lavoro che c’era prima della crisi (mancano ancora oltre 80 ore l’anno): quindi gli working poors esistono ancora. Non solo, ma se è vero che il numero di occupati è ritornato sui livelli pre-crisi, è bene ricordare che vi sono ancora oltre 1,5 milioni di disoccupati in più rispetto ad allora; tra questi molti giovani.
Quindi, i problemi generati dalla crisi sono ancora lontani da essere risolti, ma è indubbio che lo scenario è tornato ad essere positivo e che quindi si prospettano tempi migliori; meno certo è di chi sia il merito, per cui attribuirselo interamente è operazione quanto meno azzardata.
Per questo motivo invece di spartirci meriti o colpe sarebbe meglio riflettere sulle caratteristiche di questa ripresa per capire se sostenerle o tentare di correggerle.
Partiamo dallo scenario futuro, che può così sintetizzarsi:
• siamo ancora all’interno di un modello trainato dalle esportazioni, cui difficilmente potrà affiancarsi nei prossimi anni una ripresa della domanda interna (per gli effetti dell’austerity), a meno di una autonoma, ma improbabile, ripartenza degli investimenti;
• la produttività non è destinata a crescere altrimenti non si spiegherebbe perché crescita del PIL e dell’occupazione siano quasi analoghe.
Occorre, quindi, comprendere quali siano le condizioni che tengono assieme questo scenario; in altre parole, se è vero che le esportazioni resteranno il volano principale della nostra crescita, come è possibile accrescerle se la produttività non aumenta?
Temo che la risposta sia semplice: abbassando i costi – in particolare quello del lavoro – ma anche pagando meno tasse, allentando l’attenzione sulle ricadute ambientali. In fondo alcune linee di indirizzo dichiarate dai nostri governi (meno tasse, decontribuzione,..) sembrano assecondare questa impostazione.
Ma l’obiettivo di un paese sviluppato dovrebbe essere quello di favorire simultaneamente aumento della produttività e dell’occupazione; ma è solo con una crescita degli investimenti decisamente superiore a quella osservata che ciò potrà accadere.
Per questo, oltre alla imprescindibile necessità di rilanciare gli investimenti pubblici, occorre riflettere sull’uso degli incentivi che dovrebbero far sì che lavoro e capitale tornino a crescere assieme e non l’uno a scapito dell’altro come accade quando gli incentivi sono disgiunti.
Gli incentivi tendenti a ridurre il costo del lavoro (vedi decontribuzione) spingerebbero ad usare più lavoro al posto del capitale favorendo un cambiamento della composizione settoriale verso settori a maggiore intensità di lavoro a basso costo. Gli incentivi sugli investimenti (vedi industria 4.0) avrebbero il pregio di sostituire i vecchi macchinari con nuovi macchinari i quali, però, hanno una alta probabilità di essere “labour saving”.
Quindi – estremizzando – i primi favorirebbero l’aumento dell’occupazione ma non della produttività, i secondi l’aumento della produttività ma non dell’occupazione. Non che questi processi siano inutili (dal momento che potrebbero, comunque, portare ad un rinnovamento dei fattori produttivi), ma il rischio è quello di accentuare la dicotomia tra le imprese più lungimiranti (le quali si rafforzeranno con impianti più moderni, ma con scarsi contributi all’occupazione) e la parte restante del sistema (che invece potrà disporre di lavoro a costi più bassi senza ricorrere a nuovi investimenti). Una dicotomia che potrebbe portare ad un generale peggioramento delle condizioni di lavoro; preoccupazione non peregrina viste alcune recenti tendenze dell’occupazione (aumento del lavoro irregolare, riduzione dei redditi da lavoro, aumento degli infortuni, precarizzazione crescente).
Non sarebbe quindi male pensare, oltre al rilancio degli investimenti pubblici, ad incentivi che fossero particolarmente premianti se rivolti a che fa nuovi investimenti e simultaneamente assume nuovi lavoratori: ciò porterebbe ad un allargamento qualificato della base produttiva con conseguenze positive anche sulla qualità del lavoro.
Si tratta di una scommessa importante e difficile, che richiederebbe un certo impegno per impedire che si rafforzi questa pericolosa deriva che, sotto l’aumento delle quantità occupate, nasconde un pericoloso peggioramento della qualità e delle condizioni di lavoro.
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