Rogo Rignano Garganico

Siamo uomini o caporali

Lo sgombero e il successivo rogo, con la morte di due immigrati maliani, del ghetto di Rignano Garganico, nei pressi di San Severo, hanno riproposto una serie di temi drammatici e ancora irrisolti: integrazione dei migranti, controllo della criminalità organizzata sulle attività illecite, caporalato. La gestione del problema, da parte di istituzioni e forze dell’ordine, è stata corretta ed impeccabile. Quindi, eventuali polemiche sullo sgombero avrebbero il sapore disgustoso dello sciacallaggio.

Abbiamo già detto quanto il nostro Paese, nella catena degli interventi per gestire i flussi migratori, sia capace di gestire in maniera lodevole il primo (accoglienza) e l’ultimo anello (ordine pubblico), ma quanto siano ancora carenti le azioni per garantire un’effettiva integrazione. Probabilmente, dovrebbero essere ascoltati di più coloro che operano giornalmente, con sacrificio e passione, con i migranti, piuttosto che i Prefetti. Abbiamo anche detto e scritto sul fenomeno del caporalato, salutando e valutando positivamente la recente legge in materia. Probabilmente, però, occorre un’ulteriore riflessione, un’ulteriore indagine e studio del fenomeno e dei suoi effetti. Occorre individuare le reali connessioni tra immigrazione, caporalato e situazione economica e produttiva.

La piaga sociale dello sfruttamento delle braccia in agricoltura tramite questo metodo d’ingaggio, è fenomeno antico, un fenomeno che sembrava superato, o quantomeno attenuato, ma che ha ripreso vigore in forme particolarmente virulente. Quali sono le differenze e le analogie tra caporalato “classico” e quello “globalizzato”? Nei primi anni del secolo scorso, e sino a quasi la metà dello stesso, i “cafoni” condividevano con il caporale il medesimo orizzonte sociale e culturale, la stessa lingua e spesso, lo stesso paese. Ma non sempre. Anche allora si assisteva a poderosi flussi migratori di tipo stagionale e interregionale. Centinaia, migliaia di lavoratori abbandonavano le loro case, la loro terra dove pativano fame e stenti e si recavano in zone, da un punto di vista economico-agricolo, più ricche. Il Tavoliere delle Puglie, da questo punto di vista, era particolarmente attrattivo per gli sterminati ettari di terreno messi a coltura. E anche allora erano costretti ad accettare paghe notevolmente più basse dei lavoratori locali, con conseguenti aspre e, spesso, violente tensioni tra gli stessi.

Oggi accade qualcosa di significativamente diverso, per alcuni aspetti, e straordinariamente simile per altri.
I braccianti stranieri percepiscono le nostre campagne come “terra di nessuno”. Una terra di cui non condividono la lingua, non conoscono le leggi scritte e le consuetudini. Vivono, di norma, lontano dai centri abitati e non c’è alcuna forma d’integrazione con il tessuto urbano e sociale. Sono e cercano di essere invisibili e questo loro isolamento, questa loro estraniazione, producono una profonda vulnerabilità che alimenta lo sfruttamento più crudo. Gli ambiti di sfruttamento sembrano essersi ampliati, diventati più capillari nella vita quotidiana dei lavoratori agricoli, che dipendono in tutto e per tutto dai caporali, non avendo altre reti, altri soggetti a cui far riferimento. Ecco la cosa straordinariamente simile, la cosa che unisce l’esperienza dei “migranti” regionali del secolo scorso, con quelli globalizzati di oggi: l’assoluta assenza di punti di riferimento, politici e sociali, che potesse proteggerli e garantirli.

Fu proprio Giuseppe Di Vittorio il primo a porre attenzione al nesso tra lavoro e flussi migratori (per approfondimenti: “Le strade del lavoro”, di Michele Colucci, Ed. Donzelli). Fu il primo a intuire ed evidenziare il nesso tra lavoro migrante ed agricoltura stagionale, e che ogni forma di organizzazione sindacale e politica ne avrebbe dovuto tenere conto. Immaginò, quindi, il sindacato (ma vale anche per i partiti politici) che i lavoratori, tutti i lavoratori, intende rappresentare. Compresi quelli che lavorano nel nostro Paese ma che non hanno diritto di voto, come una struttura “migrante”, cioè capace di essere presente in tutti i luoghi dove dimorano i “migranti”, informandoli sui loro diritti e sul modo di esercitarli. Occorre, però, che la necessità di rendere “visibili” gli “invisibili” organizzandoli, sia supportata dall’iniziativa politica su alcuni punti fondamentali. Innanzitutto l’abrogazione della “Bossi-Fini” che si è rivelata il più potente alleato dei caporali, rendendo i lavoratori, specie se sprovvisti di un permesso di soggiorno, oltremodo ricattabili.

Ma la politica deve e può fare anche altro, intervenendo sulle dinamiche economico produttive di diversi settori agricoli. Molti dei prodotti di questo settore hanno prezzi di vendita assolutamente e incredibilmente bassi a fronte di costi di produzione che, inevitabilmente e naturalmente, crescono. Ciò determina la necessità per molti produttori, non necessariamente cinici e votati alla massimizzazione del profitto, a dover far ricorso ad una manodopera a basso costo per realizzare anche minimi margini di guadagno. Le cause che determinano questo fenomeno sono molteplici e, per certi versi, note. Incentivare finanziariamente, ad esempio, la possibilità di accorciare le filiere tramite la creazione di soggetti cooperativi, potrebbe essere una soluzione da studiare e valutare, magari replicando esperienze regionali validissime. Così come un maggiore sostegno, anche finanziario nonché di valorizzazione del prodotto, alla diversificazione ed innovazione delle colture.
Si potrebbe anche pensare, in ultimo, proprio nell’ottica di organizzare il “capitale sociale migrante”, di affidare a soggetti diversi dai Centri per l’impiego, il compito di individuare e reclutare la forza lavoro. Un po’ come è stato sperimentato con Ebitemp per il lavoro temporaneo.
Insomma, per la politica e per le forze sociali c’è ancora tanto da fare. Non dibattiti ma iniziative legislative e sul territorio concrete. La legge “Martina”, purtroppo, non basta.

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