Sinistra

4 marzo: sinistra, interregno, riconoscibilità

Pubblico qui alcune riflessioni che, a mente fredda, ho buttato giù in questi giorni e che ho già avuto l’occasione di condividere con tante e tanti sia nell’assemblea metropolitana di Sinistra Italiana che in quella di Liberi e Uguali, oltre che alla presentazione ad Acerra della rivista “InfinitiMondi”.

Le elezioni del 4 marzo scavano un grosso solco nella storia del nostro Paese: non rendersi conto dei profondi cambiamenti e sommovimenti che esse hanno provocato sarebbe per noi un errore enorme.

Ho letto che molte e molti – ed io condivido – nell’analisi di ciò che è accaduto hanno fatto ricorso, anche in modi diversi, alla categoria gramsciana dell’interregno.

“Il vecchio muore, il nuovo tarda a nascere”.
Il vecchio muore.

Che sotto le macerie del voto sia morta la Seconda Repubblica nel complesso è a mio modo di vedere evidente. Muore il centro-sinistra a trazione ulivista, muore dopo quasi trent’anni il centro-destra a trazione forzista, muore l’illusione della democrazia dell’alternanza, muoiono i tentativi di “americanizzazione” della nostra Repubblica parlamentare che pure avevano
trasversalmente affascinato tante e tanti.

La radicalizzazione dello scontro politico in Italia ed in Europa che qualcuno di noi aveva avvertito nei mesi passati si è manifestata con una forza a dir poco travolgente e ha spazzato definitivamente via ogni certezza (beato chi ne ha!) e, penso io, i compatibilismi.

Il tema è che è profondamente in crisi, nel nostro campo, una tradizione culturale nel suo complesso, che pure aveva da sempre in questo Paese un radicamento popolare ed un consenso di massa. Quella tradizione che si era forgiata nel fuoco della lotta partigiana e che aveva contribuito a costruire la nostra democrazia e la storia migliore dell’Italia. E però il Pci si è sciolto trenta anni fa e di quella che mi dicono sia stata una meravigliosa esperienza che tanti giovani come me non hanno mai vissuto (così come forse per la prima volta una buona parte dell’elettorato, ed è uno spunto di riflessione non secondario), rimangono
disordinate scorie.

Ed anche le sinistre che avevano abitato il campo dallo scioglimento del Pci ad oggi appaiono parte del vecchio che è stato forse definitivamente spazzato via.

La sinistra riformista – se così possiamo chiamarla (perché sinistra non era più da tempo e perché “riformismo” è secondo il mio parere un concetto fin troppo neutro per aggettivare qualsiasi forza politica) – è un Ulivo privo oramai di senso e finanche di radici sociali, prima che culturali ed ideologiche. Di radici nella società. Si è (finalmente) scontrata con una realtà impetuosa e radicale l’illusione di un Partito “Democratico” poggiato – più che sul sentire comune del suo popolo o su una cultura politica condivisa – su due pilastri: il sistema maggioritario, che non c’è più, ed un europeismo acritico, che è profondamente in crisi. È evidente dopo il quattro marzo il fallimento ineluttabile del progetto stesso del Pd. Un soggetto può forse tener dentro culture diverse, non può però tener dentro culture finanche antitetiche: tutto e il contrario di tutto.

Il Partito Democratico – dichiarava Giovanni Berlinguer in un’intervista a margine di un Congresso parecchi anni fa, quando esso era ancora un progetto irrealizzato – è una cosa radicalmente diversa dal Pci e anche dal Pds. Non ha gli stessi riferimenti sociali e non ha la stessa base sociale, che era costituita fondamentalmente dai lavoratori e da forze giovani. Adesso, è tutt’altra cosa: è un’alleanza di stati maggiori… e anche di stati minori, e cioè della proliferazione del professionismo politico“.

Sono parole semplici ma quasi profetiche. Il Partito Democratico in quanto tale e la deriva del Partito Democratico (che non inizia, per carità, con Matteo Renzi ma che nel renzismo ha il suo approdo quasi naturale) – un partito apparso in questi anni e in questi mesi appiattito in un governismo raccapricciante ed in un’auto-narrazione, lontana dai sentimenti del Paese, che ha puntato tutto sul consolidarsi come forza garante del sistema (e parliamo di un sistema iniquo, capitalista, ultraliberista che una forza anche lontanamente di sinistra dovrebbe invece combattere e contestare) – ha a mio modo di vedere favorito non solo il
definitivo disperdersi di quella “biodiversità politica” che aveva in qualche modo caratterizzato agli occhi dell’elettorato (che oggi guarda da un’altra parte) una parte della sinistra italiana prima e durante il berlusconismo, ma ha anche e soprattutto reciso l’ultimo cordone ombelicale che ancora poteva esistere tra quella “base sociale” di cui parlava Giovanni Berlinguer ed un partito che nello scontro tra alto e basso, forse il vero scontro andato in onda nelle urne di tutta Italia, aveva già deciso (con buona pace di qualche apprezzabile voce fuori dal coro) da che parte stare.

Ma se ha fallito il Pd, bisogna dirsi che anche la sinistra definita radicale ed alter-mondista, di cui rimangono secondo il mio modestissimo parere profondamente attuali alcune rivendicazioni e un pezzo fondante di proposta politica, a partire dalla sacrosanta critica alla globalizzazione, deve prima o poi fare i conti con una sostanziale e pericolosissima marginalità nel panorama politico ed elettorale.

La “base sociale” che dovrebbe rappresentarsi e non solo essere rappresentata in una proposta originariamente di sinistra non può infatti risolversi né nel deprimente 3,5% di Liberi e Uguali, lista che ho personalmente votato e fortemente sostenuto, un movimento dove cocci di entrambe le sinistre hanno provato a ritrovarsi con tutt’altra ambizione, né tantomeno dal risicato e festeggiato 1% di Potere al Popolo, la lista voluta e sostenuta da Rifondazione comunista e da alcune realtà di lotta.

Ma non mi persuadono, e lo voglio dire con chiarezza, le teorie (col loro sacrosanto pezzo di una verità di cui dobbiamo discutere serenamente) secondo cui il poco consenso (da cui bisognerebbe in ogni caso ripartire) che abbiamo raccolto come LeU sia dovuto agli (enormi) errori strategici, politici, comunicativi e, banalmente, di composizione delle liste che pure ci sono stati. È vero, siamo stati percepiti come l’ennesimo accrocchio costruito per prendere il 5% e permettere l’auto-conservazione di ceto politico. E se fai le liste per prendere il 5% magari prendi anche di meno. Ma, insisto, non si può parlare solo di questo. Dell’opportunità o meno di specifiche candidature o della sovra-esposizione di qualcuno, del fatto che siamo stati chiamati a Roma ad applaudire quando era già tutto confezionato, delle scelte prese dalla dirigenza intorno a un tavolo o della scelta – anche qui calata dall’alto – di un leader che va calorosamente ringraziato per essersi messo a disposizione ma che oggettivamente non ha parlato al nostro popolo, che non ha emozionato e che evidentemente non ha parlato neanche ad un pezzo di società moderata o all’elettorato che si staccava dal Pd che qualcuno sperava erroneamente di intercettare in una fase in cui la gente ha chiesto con
forza invece radicalità e discontinuità… è tutto vero, ma non basta.

Parlare solo di questo è un modo per non guardare all’enorme crisi che attraversa tutta la nostra “parte”, e non ce la caviamo senza un’analisi vera. Non usciamo da una crisi culturale, forse antropologica, aggiustando qualcosina o pensionando qualche leader. Non basta. Non vediamo né promettiamo più il sol dell’avvenire eppure non mi sembra ci siano altre proposte chiare,
percettibili dalla gente come alternative e soprattutto di lungo respiro. Avevamo e abbiamo ragione ma come scriveva Antonello Venditti nella sua “Dolce Enrico“, ” a San Giovanni stanotte la piazza è vuota “.

Diciamoci la verità: ma perché un giovane, nato alle soglie del 2000, assolutamente spoliticizzato, avrebbe dovuto preferire la sinistra (o le sinistre) al Movimento 5 Stelle? Le vere domande da porsi e le vere risposte tutte da elaborare (io forse, come scrive Luciana Castellina in un editoriale maestoso pubblicato sul Manifesto, non ne ho nessuna) dovrebbero essere queste, ed attengono a ragionamenti strutturali, lunghi, complessi, che non si risolvono in un batter d’occhio.

Ecco che torna Gramsci: “il nuovo tarda a nascere“: già, perché non mi rassegno al fatto che il nuovo – per noi e per la democrazia italiana – possa essere il Movimento 5 Stelle o, peggio ancora, la Lega Nord, forze che pure hanno raccolto, sarebbe da stupidi negarlo, parte di quella richiesta di protezione sociale che veniva proprio dal “nostro” popolo, da quella “base sociale” di cui prima: i lavoratori, i precari, i giovani, gli ambientalisti, quelli che hanno poco o nulla e che coltivano un sentimento di “rivalsa” verso le élites. Non mi rassegno, infatti, al fatto che questo sentimento di rivalsa venga coltivato da chi non ha le carte in regola per farlo, e cioè la variante italiana della destra lepenista e nazionalista, una destra pericolosa che oggi egemonizza la parte che fu dominata dell’estremismo moderato di Berlusconi, o un Movimento con riferimenti per nulla chiari che però non si dice in alcun modo contrario – e per me è il punto – ad un sistema economico nel suo complesso (anzi, Di Maio prima di vincere andava a tranquillizzare le borse sulla loro affidabilità di governo) e che rivendica, al contrario, la volontà di realizzare il programma liberista mai realizzato da Berlusconi.

In questo quadro è ancor più necessario interrogarsi, perché questo stesso sentimento di rivalsa è stato invece almeno parzialmente intercettato, nel mondo, da varie sinistre, anche in assenza di un ordinato internazionalismo che andrebbe invece reincentivato e ricostruito.
Dal socialismo rivoluzionario di Corbyn e Sanders all’irriverenza un po’ spettinata di Podemos e degli insoumises di Jean Luc Melenchon, passando per l’affermazione di Syriza in Grecia e per l’esperienza portoghese. Ed ha senso parlarne anche in vista delle Europee e dell’europeismo critico che ci serve come il pane, perché senza una discussione vera sull’Europa non c’è progetto unitario che tenga.

Diciamolo: questo sentimento di rivalsa dei “molti” a cui volevamo parlare in questa campagna elettorale non poteva invece in alcun modo essere intercettato dalla sinistra italiana. Né – ovviamente – da quelli che di questo status quo volevano farsi difensori, né da quelli che in questi ultimi anni hanno cambiato più nomi, simboli e leader che proposte. Non poteva intercettarlo il Pd, per ovvie ragioni, non poteva intercettarlo Liberi e Uguali in tre mesi, peraltro confusi, di vita né tantomeno Potere al Popolo. Le forze che hanno intercettato il sentimento di rivalsa dei più deboli sono infatti forze organizzate e capillari che sono state in grado, in tutti questi anni, di costruire una connessione con l’elettorato (che io credo ancora debole e fluida ma che intanto esiste e che è quella che evidentemente a sinistra manca!) grazie ad un progetto solido ed ad una narrazione chiara, semplice (anche se a noi non piace), caratterizzata da una continuità di contenuti, simboli e leadership. In definitiva, con una riconoscibilità (una parola chiave nell’epoca della comunicazione di massa – e lo scandalo che nelle ultime ore ha travolto Facebook meriterebbe davvero tutta la nostra attenzione) che noi abbiamo perso e che non si può ricostruire in tre mesi.

Riconoscibilità. È questa l’unica proposta che io mi sento di fare alla sinistra tra le tante domande senza risposta che mi sono posto e che vi ho posto in queste poche parole. Per costruire la sinistra bisogna costruire un’identità riconoscibile dalla gente. Nuova. Con delle radici chiare, le nostre, ma un’identità nuova, un po’ diversa da tutte quelle del passato. E per farlo occorre sì una forza politica, un grosso partito, secondo me, ma soprattutto una enorme operazione culturale molto prima che politica. Occorre ripensare persino le categorie con cui siamo abituati ad analizzare la politica e la società.

Allora guai a richiudersi nei propri recinti, ma guai anche a pensare che Liberi e Uguali basti o che il profilo tenuto in alcuni frangenti di questa campagna elettorale sia sufficientemente adeguato alla fase. E guai a discutere coi nostri numeri esigui di alleanze di governo col Pd o col Movimento 5 Stelle. Ma quale Governo, che qui c’è da ricominciare da capo, c’è da ripensare e da cambiare tutto?

È dunque necessario molto meno politicismo e molto più studio della fase, della società. Molte meno dispute sulla larghezza dei campi o sulle alleanze e molta più attenzione alla ricostruzione di una identità e di un progetto politico chiaro, di una moderna alternativa al capitalismo da declinare con nuove parole d’ordine. Meno certezze e più dubbi. Meno corse e più lentezza, che a volte la lentezza aiuta ad evitare qualche errore. Serve non disperdere l’unità costruita in questi mesi ma per farlo serve riflettere insieme ed evitare di ricominciare coi posizionamenti e coi preposizionamenti. Serve riflessione, riflessione, riflessione. Da parte delle forze politiche e – permettetemelo – anche da parte delle forze sociali e dei sindacati. E serve, sicuramente, molto più coraggio di quello che abbiamo avuto negli ultimi anni.

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