Matteo Renzi

Ce la farà il neopopulista Renzi?

Recentemente Renzi ha indicato il contenuto politico di una sua precedente dichiarazione, l’intenzione di andare alle elezioni politiche senza alleati. Ho definito tale contenuto come parte di un passaggio sostanzialmente populista. In assonanza netta al complesso delle destre europee, Renzi, infatti, ha anche dichiarato questi due obiettivi: primo, di non fare del fiscal compact lo strumento regolatore delle future politiche di bilancio dell’Italia; secondo, di portare per cinque anni di fila il deficit (il passivo annuo di bilancio) al 2,9% del PIL (attualmente è al 2,4%): ciò che, egli afferma, significherebbe (evidentemente al netto di riduzioni del prelievo fiscale) 30 miliardi a disposizione dello stato per attivare investimenti e crescita dell’occupazione, insomma una ripresa più significativa dell’attuale microripresa dell’economia italiana, tutta trainata da una ripresa europea non eccelsa ma neanche da disprezzare.

IL FISCAL COMPACT – Giova chiarire da dove nasca questa questione del fiscal compact. Si tratta di un’integrazione avvenuta nel 2012 ai Trattati europei, che impose ai paesi della zona euro di andare celermente verso una situazione di pareggio di bilancio passando per un periodo preparatorio di cinque anni fatto di cosiddette “riforme” (cioè di tagli, potenzialmente di tutti i tipi, alla spesa pubblica, tra cui hanno primeggiato, in termini esasperati in Italia, data l’altezza del suo debito pubblico, l’abbattimento della spesa pensionistica, di quella sanitaria e del complesso dei servizi alla popolazione, il blocco delle assunzioni e della contrattazione salariale nel pubblico impiego, la spending review, ovvero il semiblocco della spesa delle amministrazioni locali, a partire da quella per servizi, trasporti, casa), e che doveva sfociare, passati i cinque anni (quindi a partire dalla fine di quest’anno) nell’attuazione a tappe forzate del pareggio di bilancio (cioè, concretamente, del passaggio rapido in Italia da un deficit del 2,4% a un deficit zero, al netto degli interessi di un debito destinato, con tale misura, a una progressiva estinzione).

Questo passaggio, preso alla lettera, intendeva significare che nel giro di alcuni anni, tormentata dalla Commissione Europea e dal governo tedesco (se esso continuerà, come appare probabile, a essere democristiano), l’Italia dovrebbe arrivare a un abbattimento della propria spesa pubblica complessiva pari a una cifra tra i 35 e i 40 miliardi annui di euro. Un fatto, tuttavia, semplicemente impossibile, non solo in ragione delle reazioni sociali alla distruzione radicale del welfare e dei servizi pubblici e alla precipitazione in una recessione catastrofica, bensì conti minimamente realistici alla mano (poi vediamo).

L’AGENDA MONTI – Giova poi chiarire come avvenne da parte dell’Italia e in quale forma l’adozione del fiscal compact. All’inizio del 2012 fu raggiunta la soglia di adesioni necessarie al suo avvio da parte dei governi della zona euro. In Italia la totalità delle parti politiche significative dichiarò in forma encomiastica il suo assenso: finalmente i conti “in ordine”, niente “sprechi”, ecc. Le concrete condizioni parlamentari portarono alla formazione, capeggiata dall’economista ultraliberista e ultramonetarista Mario Monti, di un governo cosiddetto tecnico (nel politichese manipolatorio delle istituzioni europee di comando ciò intende significare l’assenza di interessi politici o sociali di parte nella definizione degli orientamenti economici, dunque intende significare che a determinarli sarebbero i superiori interessi di una cosiddetta “nazione” ovvero della totalità della popolazione). Il tecnico Monti sostenne che la recessione nella quale l’Italia più che altri paesi dell’Occidente era caduta e la speculazione finanziaria che aveva aggredito i titoli sovrani italiani richiedevano, a nome appunto della salvezza della “nazione”, tagli orizzontali da cavallo della spesa pubblica. Buoni esempi di ciò che l’“agenda Monti” rappresentò furono il semi-assassinio della sanità pubblica, al punto che l’80% della popolazione anziana oggi non riesce ad accedere al complesso delle cure necessarie, e il semi-assassinio del sistema pensionistico, trasformato in elemosina per vecchi ultrasettantenni. Non solo: grazie a tale “agenda” l’Italia è stata l’unico paese della zona euro a collocare il pareggio di bilancio della sua Costituzione. Dove tuttora esso si trova.

Ovviamente, anche questo giova chiarire, non solo la salvezza della “nazione” non aveva bisogno di questo ma dell’esatto contrario, cioè di disporre di una qualche capacità di ripresa dell’economia anziché precipitare nella deflazione. Ma gli obiettivi reali di Monti erano ben altri (al tempo stesso, di una natura tale da non poter essere dichiarati, perciò forsennatamente bisognosi di essere coperti da un’argomentazione “tecnica”). Tali obiettivi, infatti, furono l’avvio a distruzione di ogni elemento a tutela delle condizioni materiali e dei diritti sui luoghi di lavoro delle classi popolari; e fu, ipso facto, la prosecuzione in Italia, in atto dagli anni ottanta nell’Occidente, dell’immenso e crescente trasferimento di ricchezza dal basso verso l’alto della gerarchia sociale, essendo stato consegnato il comando dell’economia, attraverso una pletora di trattati di libero scambio dotati di poteri di tipo statale, alla grande speculazione finanziaria e a 500 grandi multinazionali, quindi essendo stata ridotta a poco più che a nulla la sovranità economica e politica degli stati. Detto ancor più concretamente, la preoccupazione di Monti fu che, nonostante la recessione e nonostante la successiva deflazione, le saccocce delle classi ricche italiane (in sintonia a quelle di tutto il mondo) continuassero a essere incrementate dalla spremitura delle saccocce delle classi popolari italiane (in sintonia a quelle di tutto il mondo).

Giova chiarire, in ultimo, come ciò rappresenti la spiegazione, al tempo stesso assolutamente razionale e coerentemente di classe, di un fatto che altrimenti apparirebbe insensato: l’adozione di politiche ultrarestrittive di bilancio (neoclassiche ergo monetariste: cioè orientate all’“equilibrio” paritario tra valore dei fattori di produzione, valore delle merci in circolazione e relativo loro controvalore monetario) in un momento in cui solo la spesa pubblica, in altre parole solo la creazione di debito, se razionalmente orientato, sarebbe risultato suscettibile di schiodare in tempi relativamente brevi l’Unione Europea e segnatamente l’Italia (per non parlare della povera Grecia, massacrata in modo barbarico) dalla crisi (consentendo, così, in seconda battuta il recupero del debito). E questo nonostante la scienza economica non manchi di ampi precedenti storici atti a spiegare che cosa sia bene fare in condizioni di crisi di portata sistemica avendo davvero l’obiettivo della ripresa economica. Nel 1929, per esempio, la crisi bancaria creata da fallimenti speculativi evolvette rapidissimamente in una recessione che creò decine di milioni di disoccupati e la miseria di gran parte della popolazione statunitense, inoltre che rapidamente dilagherà nell’intero Occidente, proprio a seguito delle politiche restrittive di bilancio ergo classicamente monetariste dell’amministrazione Hoover; e nel 1933 sarà il rovesciamento di queste politiche operato dall’amministrazione Roosevelt a portare gli Stati Uniti fuori dalla crisi, cioè fu la sua creazione di un debito enorme che consentì il finanziamento di grandi programmi pubblici i quali, al tempo stesso, ammodernarono gli Stati Uniti e crearono decine di milioni di posti di lavoro (e ai quali, a rinforzo della loro efficacia, Roosevelt accompagnò l’aumento per legge dei minimi salariali, il rafforzamento dei diritti dei lavoratori sui luoghi di lavoro, una fiscalità altamente progressiva che giunse addirittura a un prelievo di oltre il 90% sui redditi arricchiti dalla speculazione). Aggiungo come questa svolta di politica economica coinvolse l’Italia fascista e la Germania appena diventata nazista: a significare che l’ovvio si era fatto rapidamente strada.

Torniamo a Renzi. Questi nel 2014 fece saltare il governo Letta, prosecutore a cautissimi spizzichi dell’“agenda Monti”, con l’intenzione di proseguire invece alla Monti contro condizioni e diritti del mondo del lavoro, contro scuola e università pubbliche, contro il welfare, ecc., convinto che a coprirlo fosse l’immagine del giovane gagliardo e muscolare all’assalto delle arretratezze corporative italiane, fossero suo eloquio aggressivo “anticasta”, qualche elemosina di qui e di là, ecc. Ma sono espedienti da sempre destinati a durare poco; nel frattempo, quindi, la crisi economica e sociale italiana è diventata organica, totale, la sua realtà sociale e culturale si è fatta largamente populista di destra, dato l’enorme malessere sociale, il disastro assoluto del Mezzogiorno, il livello da terzo mondo dell’inoccupazione e del precariato giovanili, il dissesto delle pubbliche amministrazioni, il discredito generalizzato della politica e delle istituzioni dello stato. Ragion per cui Renzi ha deciso, come ho indicato, il passaggio proprio e del PD al populismo, così come la normalizzazione di questo partito, dato che questo passaggio non è robetta né semplice né da poco, come un’infinità di cose indica.

Più esattamente, Renzi ha deciso il passaggio alla variante di destra del populismo (in Occidente si è fatto strada più o meno recentemente, in diverse varianti, anche un populismo di sinistra: quello dei Corbyn, Sanders, Mélenchon, e prima di Tsipras, Iglesias, ecc. Niente di strano: anche la sinistra – finalmente – sta tendendo ad adattarsi a una “situazione populista” occidentale sempre più sviluppata. Cosa intendere per populismo di sinistra: l’emergenza di leadership orientate al rapporto diretto con le classi popolari, a una rappresentanza molto determinata delle loro richieste, alla definizione di obiettivi che affrontino i nodi reali anzich definirine di fittizi – come invece fanno le destre populiste – all’uso di linguaggi chiari e accessibili, alla ricostruzione di partiti di massa, essendo venuta largamente meno la possibilità, in certa misura sostitutiva, di un uso adeguato delle istituzioni rappresentative dello stato e delle forme partito biunivocamente vincolate a queste istituzioni, poiché troppo screditate. Tra le molte differenze tra populismo di sinistra e populismo di destra c’è che il populismo di sinistra tende, attraverso la sua azione, a riqualificare e a rilanciare le forme anche rappresentative della democrazia, non solo quelle sociali, mentre il populismo di destra tende, a nome della “nazione” ecc., a mettere ai margini della vita politica e sociale se non a far fuori – vedi il Movimento5Stelle – la democrazia rappresentativa).

Allora, perché è di destra la posizione di Renzi: intanto per il linguaggio antiparlamentare, nel quale l’esercizio della rappresentanza viene rappresentato come monopolio di una “casta” legata a privilegi di ogni sorta, lontana dalla “gente”, inetta, parassitaria, ecc. Non che questi difetti siano assenti: ma il discorso renziano non mette in mora i difetti, bensì la rappresentanza. Inoltre la mistica renziana dell’uomo solo, energico, vitalistico, al comando dice essa pure le stesse cose populiste di destra.
Infine Renzi è di destra populista anche perché il suo programma economico fatto di abbattimenti orizzontali del prelievo fiscale da redditi, abitazioni, ecc. e di elemosine a pioggia aventi finalità di consenso elettorale altro non è che un pezzo del programma di Milton Friedman, ovvero dell’ultraliberista Scuola di Chicago. Poi è di destra liberista il suo attuale discorso sui migranti. Una precisazione: ben altro è la necessità di trasferimenti monetari alle famiglie e alle persone in condizioni di miseria e, quando siano in condizioni lavorative, non siano messi in grado di lavorare. Ma tra due righe vedremo come le elemosine la posizione di Renzi non sia in grado di sostituirle con un’azione seria contro la misera.

I motivi di contrasto da sinistra a Renzi sono, dunque, tanti e pesanti. Alcuni sono evidenti, e si può non commentarli. Altri lo sono meno. L’intenzione di politica fiscale (i tagli orizzontali a favore di ogni livello e tipo di reddito) è semplicemente destinata, se egli arriverà a praticarla, ad agire molto pesantemente contro spesa in welfare, scuola, università, tutela e risanamento del territorio, ogni genere di servizi, proprio per via dell’abbattimento fiscale; e, inoltre, essendo una pia illusione che l’effetto di questa politica possa essere un’accelerazione potente della crescita economica ergo tale da consentirgli un bel po’ di entrate fiscali in aggiunta ai 30 miliardi di cui sopra con il cui uso realizzare recuperi di consenso sociale. Come insegna, infatti, qualsiasi manuale di economia, il moltiplicatore (l’effetto positivo) di una tale politica è ridottissimo, per il semplice motivo che le classi ricche faranno risparmio degli abbattimenti fiscali a loro beneficio ovvero ne faranno investimento speculativo di qua e di là per il mondo; mentre a loro volta le classi popolari (ivi compreso il ceto medio impoverito) certamente aumenteranno i loro consumi, ma soprattutto risparmieranno esse pure, nella prospettiva di un po’ di paracadute dinanzi a una sanità che ti cura adeguatamente solo se paghi, dinanzi a un’università che i figli potranno praticare solo pagando rette salate, ecc. Solamente, concludo, uno shock fiscale, costituito non solo da un abbattimento del prelievo a carico popolare ma anche e soprattutto da un prelievo, primo, ingente sul valore patrimoniale e finanziario, secondo, costruito da una curva esponenziale sui redditi ricchi (tanto più sei ricco tanto più si alza la percentuale del prelievo fiscale) può da un lato integrare significativamente le entrate pubbliche, dall’altro comunicare alle classi popolari che cambia la musica, che si comincia a restituire loro quanto gli è stato espropriato alla grande dalle classi ricche nella grande baldoria speculativa di questi trent’anni e più, addirittura anche nel contesto della crisi del 2008.

QUALE POLITICA ECONOMICA DI ARTICOLO UNO? – Di qui, tra parentesi, la necessità di una superiore articolazione della proposta politica di Articolo Uno e, più in generale, della sinistra italiana; non basta, intendo dire, l’elenco degli obiettivi immediati, occorre un ragionamento di politica economica. Quest’ultimo, inoltre, risulta indispensabile dal punto di vista del contenimento degli effetti ideologici e sociali della demagogia delle destre populiste. In particolare, occorre che venga assunta una posizione molto ferma nei riguardi delle posizioni e delle imposizioni della tolda di comando dell’Unione Europea, e in modo particolare della Commissione Europea, dei suoi apparati e dell’Eurogruppo, gestiti, sotto comando tedesco, da ultramonetaristi uno più dogmatico dell’altro.
Al tempo stesso non credo, a questo proposito, che si debba operare con i criteri da sfasciacarrozze che Renzi dichiara. Il populismo di destra è ostile senza se e senza ma all’Unione Europea, sia perché la “nazione” da loro inventata e feticizzata chiede un più o meno secco ritorno allo stato-nazione (cosa pericolosissima economicamente, si guardi a ciò che sta accadendo all’economia britannica intermini di fuga di capitali, imprese, attività finanziarie), sia perché solo nel quadro dello stato-nazione possono essere realizzati sistemi di potere più o meno personali e più o meno autoritari (se questo non viene sempre esplicitato è solo perché la Brexit ha teso a contenere in Europa il voto popolare a dispetto, che appunto la destra premia, inducendo la paura di una destabilizzazione tutta al buio dell’UE ovvero portatrice obiettiva della demolizione di pensioni e risparmi, di rischi di nuovi collassi economici, di rischi di ritorni ai vecchi conflitti europei).

Quindi il populismo di destra può permettersi di dichiarare guerra politica totale all’UE. La sinistra non può, invece, ignorare gli effetti reali, appunto pericolosissimi, di una destabilizzazione al buio dell’UE. Al tempo stesso, tuttavia, la sinistra non può continuare a subire solo borbottando l’imposizione da parte di burocrazie a comando tedesco di politiche antisociali di stampo liberista e anti-economiche di stampo monetarista. Penso, all’ingrosso, che vada pubblicamente dichiarata una sorta di sfiducia politica a Commissione Europea ed Eurogruppo, affermandone la faziosità e il dogmatismo ideologici, il radicalismo antisociale e il fallimento in sede di obiettivi dichiarati di sviluppo economico; e che vada parimenti dichiarato che o la musica cambia, il fiscal compact è accantonato, ecc., o l’Italia si orienterà economicamente per proprio conto e secondo i propri interessi. Non è impossibile fare questo “legalmente” sotto più aspetti: non si dimentichi che l’entrata a regime del fiscal compact richiede un voto formale del Consiglio Europeo e che l’Italia può porre il veto, imponendo così o una ridiscussione ampia o, di fatto, il ritorno ai parametri del Trattato di Maastricht, che prevedono la possibilità di un deficit fino al 3% del PIL. Ancor meno la Commissione Europea è oggi in grado politicamente di aprire procedure di infrazione o di praticare ritorsioni economiche di questo o quel tipo: Ungheria, Polonia, ecc. hanno mandato a quel tal paese la Commissione in tema di ricezione di migranti, e non è sucecsso nulla. Il baraccone europeo funziona solo se c’è cooperazione tra Commissione, governi, forze politiche fondamentali di governo, altrimenti si rovescia in una tigre di carta. Neppure la sinistra può accettare che continui il mercatino delle vacche tra Commissione Europea e governo Gentiloni, io Commissione ti do un po’ di “flessibilità” cioè ti consento di spendere, indebitandoti, una manciata di miliardi in più per elemosine e rattoppi, tu governo italiano mi dai tagli alla “spesa” cioè al welfare, ai servizi e alle amministrazioni locali per, più o meno, altrettanto, recuperando così quanto ti sei indebitato. Niente stupidaggini, ancora, siano esse di destra o di sinistra, a base di ritiri dall’euro (dal quale nessuno può cacciarti), niente sparate spericolate di sorta.

Un modo per tentare da parte italiana una trattativa con i poteri europei portatrice di risultati utili potrebbe consistere, in vista di una ridiscussione globale, anche nella sospensione del fiscal compact e nell’esclusione dal deficit degli investimenti pubblici, battendosi perché non si tratti solo degli investimenti direttamente produttivi ma anche di quelli in welfare, servizi pubblici, formazione, manutenzione del territorio, realizzati sia dallo stato che dalle amministrazioni locali.

In ultimo, da parte dell’Italia dovrebbe essere rivendicato quanto essa spende a sostegno e a stabilizzazione civile dei migranti che vi affluiscono, in analogia a quanto avvenuto a suo tempo a favore della Turchia (scordatevi che gli altri paesi dell’UE accettino di portare a casa propria quote sgnificative di questa povera gente. L’Ungheria fascista ha già dichiarato che non vuole che la razza ungherese venga alterata, e se altri governi ciò non dicono è solo per obiettivi di immagine).
Solo se al complesso di queste richieste venisse risposto picche l’Italia dovrebbe tendere a recuperare la propria indipendenza sul piano della politica economica e di bilancio.

LA NORMALIZZAZIONE DEL PD – In ultimo un paio di ulteriori quesiti sono venuti alla luce in queste settimane. Renzi ce la farà nel suo tentativo di normalizzazione del PD e di realizzazione di obiettivi economici e di bilancio che trovano i poteri europei assolutamente ostili, o finirà a tarallucci e vino cioè alla Padoan e alla Gentiloni? E, anche ammesso che ci riesca, il risultato delle elezioni politiche gli consentirà di far tornare il PD al governo, in ovvia alleanza con Berlusconi? Berlusconi, fino a ieri disponibile, e orientato da Tremonti ad associarsi a Renzi nello scontro con i poteri europei, ha fatto due conti guardando ai recenti sondaggi e pare ne stia concludendo che per tornare al governo è meglio accordarsi con Salvini; il quale, a sua volta, ha dichiarato, senza tema di comicità, di non aver mai puntato a essere il capo di un eventuale schieramento di centro-destra. Non solo. Se è vero che Renzi ha sostanzialmente normalizzato il PD, è anche vero che mezzo ministero Gentiloni, orientato economicamente come d’antan da Padoan e Calenda, non gli va dietro, così come è vero che un mezzo freno a mano rispetto alle posizioni di Renzi è stato messo lì anche da Gentiloni e Mattarella. Ciò che a sua volta potrebbe far saltare la normalizzazione del partito. Davvero in questo momento non vedo Renzi messo molto bene.

* Luigi Vinci, già senatore e parlamentare europeo, è del direttivo della Associazione Culturale Punto Rosso e iscritto ad Articolo Uno.

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