Robot_Lavoro

E’ un computer che ci toglie lavoro e diritti. Non un nero (o migrante)

Quando ci accorgeremo che è stato un computer a toglierci il lavoro e la dignità e non un ‘negro’ sarà già troppo tardi. C’è un dato, una previsione, che dovrebbe essere l’angoscia, il tormento, delle classi dirigenti mondiali. Soprattutto se di sinistra. Entro il 2030 il mondo intero perderà circa 1 miliardo di posti di lavoro. Un miliardo. Il tema della fine del lavoro, la cosiddetta Jobless society legata allo sviluppo tecnologico, alle intelligenze artificiali e alla robotica è stato già intuito negli anni trenta dall’economista britannico John Keynes. Keynes ne tratteggiò le enormi opportunità dal punto di vista della liberazione dalla terribile condanna biblica. Tra le pagine dello stesso Marx, senza affatto voler riaprire una polemica mai assopita,, si poteva leggere di una società libera dal (o del) lavoro. Il tema è stato, poi, trattato, più o meno approfonditamente, da tanti romanzieri, da Asimov a Dick, che probabilmente hanno intuito più di partiti e leader le sorti del mondo. Il futuro della nostra società si trova più nei loro libri che nei programmi elettorali delle destre e delle sinistre mondiali. Ready player one di Spielberg è più illuminante del programma dei Democratici americani. In ogni caso, il tema della fine del lavoro è ritornato centrale negli anni ‘80 nella riflessione e nell’opera di Jeremy Rifkin. L’economista statunitense ne mise in risalto i rischi e le opportunità, provando a tratteggiare i contorni del problema e le eventuali misure che esso invocava.

Il tema è, poi, quasi scomparso dalle agende politiche e culturali dei grandi paesi occidentali e orientali per ritornare, questa volta con prepotenza e come un tsunami, negli ultimi anni. Se prima era una mera ipotesti fantascientifica, chiusa in qualche romanzo di successo o in trattati economici poco consultati, la robotizzazione oggi avanza implacabile, a tappe forzate, desertificando non solo le fabbriche e le grandi industrie, ma tutto il lavoro manuale e, novità, anche quello intellettuale. Ci sono macchine che assemblano altre macchine e ci sono server che studiano sentenze o diagnosticano malattie. Ci sono intelligenze artificiali in grado di riconoscere i propri errori e correggersi, ‘ripararsi’.

La grande questione è oggi sotto gli occhi di tutti, anche se nessuno vuole veramente affrontare il problema. Siamo abituati, come è giusto che sia, ad organizzare la società in tutte le sue sfumature attorno al lavoro. Sottratto il lavoro da sotto i nostri piedi, in che società vivremo? Se oggi siamo al punto in cui siamo, se la globalizzazione mostra i suoi artigli, se il progresso si è trasformato in regressione, i motivi in fin dei conti sono tutti politici. E risiedono nell’incapacità delle classi dirigenti di cogliere il problema, farlo introiettare al ‘popolo’ e provare a governarlo. La politica non è riuscita a dare risposte efficaci al nuovo fenomeno rivoluzionario, prigioniera del pensiero unico, di una cultura che, attardata a sognare scenari che ormai appartengono ad un passato che non ritornerà, è incapace di leggere il presente. Gli incentivi fiscali, la contrattazione decentrata, la flessibilità dell’orario lavorativo concessi alle aziende per invogliarle a nuove assunzioni, non fermano il dilagare della disoccupazione e mortificano la qualità della occupazione, precarizzandola e privandola di diritti e garanzie. Per la prima volta rispetto a quanto è sempre avvenuto in passato, di fronte ad una minaccia duplice, il progresso tecnologico e la crisi economica, l’orario lavorativo aumenta invece di diminuire, così come pure il carico di lavoro per ciascun dipendente; per la prima volta aumentano le opportunità contrattuali che indeboliscono i diritti del lavoro e perde terreno il valore della contrattazione.

Dopo aver elencato cause e aspetti del problema (semplificando per ovvi motivi di spazio), la domanda resta una ed una soltanto: che fare?

La risposta non solo non è semplice, ma per ora non c’è. Quello che è sicuro è che non basterà una legge e un emendamento, un paio di volti nuovi e l’azione di uno o due governi a modificare il corso della storia. Serve ribaltare completamente i paradigmi, rivoluzionare il modo col quale si guarda alla realtà. E se non lo fa la sinistra, chi altri?

Proviamo a fare un esempio. Che senso ha, se non in linea di principio, reintrodurre l’articolo 18? O meglio: reintrodurre l’articolo 18 è utile come sparare un colpo di pistola contro un carro armato che ci punta contro. Siamo in presenza di una nuova rivoluzione industriale, nella quale la produzione e il lavoro, l’occupazione e la produttività non camminano più di pari passo. Esattamente come nelle civiltà antiche, nelle quali il lavoro era per gran parte affidato agli schiavi, oggi la ricchezza è prodotta dalle macchine. La concezione classica del lavoro va, dunque, rivoluzionata e inserita in una prospettiva che ha a che fare con l’inclusione sociale e con la realizzazione individuale. E ciò che è urgente fare è redistribuire un lavoro destinato a diventare sempre più raro.

Entrare ora nel merito di questa o quella azione rischia di diventare contraddittorio e forse inutile. Ma tracciare qui qualche linea guida potrebbe avere qualche utilità. Le grandi corporation, grazie alla robotizzazione, risparmiano sul costo dei lavoratori. La ricchezza, insomma, è la stessa solo che mal distribuita. Insomma, un computer genera un plusvalore che rimane in mano di un Cda d’Azienda o a pochi facoltosi. Bill Gates (non un bolscevico) provocatoriamente propone di tassare il lavoro dei robot e redistribuire. Ricostruire la società attorno ad un lavoro diversamente inteso, la ricerca e i talenti, un tempo si sarebbe detto le passioni, è così impensabile? Forse no. Riconquistare lo slogan “Lavorare tutti, lavorare meno” è un’utopia? Probabilmente no. E il compito della sinistra, qualsiasi essa sia, è di trasformare le utopie in solide realtà.

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