Mobilitazione per l'Articolo 18

Più precariato e meno diritti. Il falso mito del jobs act

Per comprendere il valore reale dell’ art.18 nella determinazione dei rapporti di forza tra chi compra e chi vende il proprio lavoro sarebbe forse sufficiente riflettere su quanto a lungo e con quanta energia si è dispiegato l’attacco a questo isituto giuridico nella recente storia delle relazioni sindacali del nostro Paese. Dai referendum promossi dal Partito Radicale sul finire degli anni’90 fino al Jobs Act del 2015 passando per la furente iniziativa della Confindustria a guida Damato tradotta in disegno di legge del Governo Berlusconi del 2001 poi abortito in seguito a quella che rimane la più grande manifestazione del lavoro in Italia il 23 marzo del 2002. Senza dimenticare il suo primo significativo ridimensionamento attuato con la riforma Fornero del 2013.

Si tratta di un arco temporale lungo circa venti anni durante il quale i fautori dello smantellamento dell’art 18 hanno adottato uno storytelling secondo il quale l’art 18 era un istituto superato nei fatti (a supporto di tale tesi si portava la scarsissima consistenza numerica del contenzioso giuridico) che, inoltre, costituiva un freno potentissimo alla possibilità che i datori di lavoro assumessero a tempo indeterminato.
In realtà l’irrilevanza del contenzioso giuridico di quegli anni ci racconta di come l’art 18 avesse in sè un duplice potere deterrente. Da un lato impediva che avvenissero licenziamenti senza giusta causa e dall’ altro faceva in modo che, all’insorgere di un eventuale conflitto, le parti trovassero più utile arrivare a una conciliazione prima di entrare nelle aule di un tribunale.

Per ciò che attiene, poi, l’effetto ricostituente che il suo superamento avrebbe dovuto avere sulle assunzioni a tempo indeterminato i numeri successivi all’approvazione del Jobs Act ci raccontano un’altra storia.
Secondo l’Osservatorio sull’ occupazione dell’INPS nel 2016, anno incui è venuto meno l’incentivo alla decontribuzione garantito nel 2015, i contratti a tempo indeterminato sono stati 763mila in meno con un abbattimento del 37,6% rispetto al 2015. Ma se questo dato da solo non bastasse a convincerci della mancanza di un nesso reale tra il presunto vincolo dell’art 18 e l’assunzione a tempo indeterminato, si provi a spiegare come il dato del 2016 non è solo in calo rispetto al 2015, ma anche rispetto al 2014 anno in cui gli incentivi del Jobs Act non erano ancora disponibili. Nel 2017 (primo semestre) sono invece cresciuti di 500mila unità i tempi determinati contribuendo alla crescita del numero degli occupati. Questo ultimo dato ha fatto cantare vittoria ai sostenitori del Jobs Act peraltro rapidamente smentiti dall’unico indicatore che ci dice come stanno in realtà le cose: il numero di ore lavorate che sono nel primo semestre del 2017 in calo.

L’unico numero stabibilmente in crescita è quello dei licenziamenti disciplinari che nei primi due mesi del 2017 risulta essere del 30% in più sul 2016 e del 60% in più sul 2015 quando c’era ancora l’art.18 sia pure già depotenziato dalla riforma Fornero.
Infine l’Osservatorio sul Precariato rende noto che nel primo semestre di quest’anno gli avviamenti al lavoro stabili sono uno su quattro. Questo dato non rende forse ancora sufficiente conto della drammaticità della precarizzazione del lavoro avvenuta. Nella sola regione Lazio, a esempio, nel 2016 , secondo i dati del Ministero del Lavoro, il 52% del totale degli avviamenti è costituito da contratti la cui durata è compresa tra un giorno e un mese.

Nella durezza di queste cifre sta l’icontrovertibile smentita della favola per la quale senza art.18 avremmo avuto più occupazione stabile e nessun indebolimento della tutela dei diritti e della dignità dei lavoratori. Le assunzioni stabili sembrano infatti essere legate ai cicli economici espansivi o a forme di investimento private o pubbliche più stabili degli incentivi a tempo. Se si pensa che i dal 2013 a oggi sono stati spesi oltre 23 miliardi di euro in incentivi viene davvero da recriminare di quanto lavoro stabile si sarebbe potuto creare tramutando gli incentivi in investimenti.
Mentre nessuno che abbia buon senso riesce a capire perché un lavoratore che un tribunale riconosca come licenziato immotivatamente debba avere un bonus economico e non il proprio posto di lavoro. Questo diritto va ripristinato .

A quanti criticamente osservano che con questa proposta ci si continua a far carico solo di chi ha un lavoro stabile osservo che la strada per estendere un diritto non passa per toglierlo a chi ce l’ha e che la nostra iniziativa a sostegno del ripristino delle tutele contro i licenziamenti senza giusta causa vanno visti insieme con quella relativa alla riunificazione delle quarantadue forme oggi possibili di lavoro dipendente nel contratto unico di cui pure il programma di MDP parla.

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