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Michele Ciliberto: Machiavelli, tra virtù e Fortuna, conflitto e ordine, ragione e pazzia

Pubblichiamo il testo dell’intervento di Michele Ciliberto, al Salone del libro di Torino, dove ha preso parte alla tavola rotonda con Enrico Rossi e Massimo Cacciari su “Politica, ovvero l’arte dei pazzi” in occasione della presentazione della ristampa completa, curata dallo stesso Ciliberto, delle opere di Machiavelli, edito da Bompiani.

Volevo concentrarmi su due punti, brevemente. Il primo l’ha sollevato Massimo [Cacciari] ed è, appunto, la questione del perché Machiavelli non è ascoltato. E l’altro punto è quello stato sollevato dall’amico Rossi, che riguarda la questione del conflitto.

Volevo partire dal primo problema. Noi dobbiamo avere chiaro, quando parliamo di Machiavelli, che Machiavelli è uno sconfitto nella storia fiorentina e nella storia italiana del ‘400-‘500.

Il primo punto di questa sconfitta è la caduta della Repubblica, di cui Machiavelli era stato segretario. Ed è questa sconfitta che resta come una ferita che dura tutta la vita di Machiavelli. Almeno a mio giudizio, non riesce più a riprendersi, nel senso che non ha più un ruolo politico. Sarà incaricato di scrivere le Istorie fiorentine da Giulio de’ Medici, poi Clemente VII, nel 1520, avrà un ruolo poi a Firenze nel 1525 e anche fra il ’26 e il ’27 nella politica di Clemente VII, ma non avrà mai più il ruolo che aveva avuto fino al 1512 nella storia di Firenze.

Se uno vuol vedere, come dire, in presa diretta questo Machiavelli deve leggersi le Lettere, le Lettere del 1513 a Francesco Vettori, oppure le lettere a lui di Guicciardini, le lettere a lui di Filippo Strozzi, in cui questo elemento di una grande sconfitta appare in presa diretta.

Ora, però, perché non è ascoltato? Perché anche gli amici a lui più vicini, come per esempio Filippo Strozzi o anche Guicciardini, quando lui fa le sue proposte più forti, per esempio quella de Il Principe, oppure quella di affidare a Giovanni dalle Bande Nere la guida dell’esercito pontificio, si ritraggono?

Io credo che questo dipenda anche dal modo in cui Machiavelli pensa la politica, che è un modo molto complesso e che si può capire solo se uno mette a fuoco il modo in cui Machiavelli pensa – ma non è solo Machiavelli, anche Guicciardini, per fare un altro nome – il ruolo della Fortuna, che è il centro della sua riflessione filosofica e politica.

Se uno vuole trovare un filo della riflessione di Machiavelli, è sempre stato quello di contrastare la Fortuna, nella consapevolezza che per contrastarla sono necessarie anche iniziative estreme. Oppure, per utilizzare un lemma di Machiavelli, “eccessive“. O addirittura “pazze“.

Perché appunto con i mezzi ordinari non è possibile contrastare il potere e il predominio della Fortuna.

Nel Principe, quando si interroga sui rapporti fra Virtù e Fortuna, uno dei luoghi in cui valorizza di più la Virtù, dice che comunque la Virtù non ha la potenza della Fortuna ed è uno dei luoghi in cui questo tema è sviluppato con maggiore forza.

Machiavelli ha la consapevolezza che nel mondo non è individuabile un principio, una regola, che consenta di prevedere il futuro, e che la stessa Fortuna, che è l’elemento che mette permanentemente in questione l’ordine, nemmeno la Fortuna è sempre quella medesima.

Machiavelli cerca di trovare un principio, cerca, attraverso l’imitazione delle storie antiche, di trovare in qualche modo una regola, ma la regola è impossibile, perché le cose non si producono mai allo stesso modo.

Machiavelli non crede nella concezione civica degli storici, secondo cui torna identico nello stesso modo. Ritiene, invece, che la realtà è dominata dalla variazione, e il problema è come riuscire a controllare la variazione e a operare una previsione in un mondo che varia continuamente.

Dice a Vettori, la “Fortuna dura qualche volta un tempo et poi varia, et noi non sappiamo quando ha a cominciare e variare“.

Questo è centrale all’interno del suo ragionamento. Allora, se le cose stanno così, la ragione, o l’analisi dei rapporti di forza, non è sufficiente, ci vuole qualcos’altro, quello che lui dice appunto a Francesco Guicciardini quando parla di Giovanni dalle Bande Nere, ci vuole un’idea pazza. Io ho avuto, dice, un’idea pazza. Ci vuole, cioè, un’idea estrema.

E ci vuole un’attenzione continua, per dirlo con una formula, tra ragione e pazzia, fra la ragione e l’eccesso.

L’eccesso, però, non è qualcosa d’irrazionale. È il lampo che conclude un ragionamento, è l’accensione di un momento più alto quando si compie l’analisi.

Ma nel giudizio questo l’ha capito bene Gramsci, il quale dice appunto che la politica per Machiavelli è affetto, febbre, fanatismo di azione. Cioè la politica è dentro la ragione, ma oltre la ragione.

Ed è questo l’elemento che lo mette in una condizione di differenza rispetto a Guicciardini o a Filippo Strozzi, che non lo seguono.

E questo spiega anche gli elementi di carattere addirittura religioso del lessico di Machiavelli. Perché se voi andate a leggere il finale de Il Principe, l’Exhortatio, ci sono anche elementi di questo tipo.

Quindi, induce anche questa valorizzazione dell’eccessiva virtù, dell’eccessiva forza, dell’eccessiva potenza, che è in qualche modo uno strumento fondamentale per cercare di definire una proposta politica in un mondo che cambia permanentemente per un’azione inopinata della Fortuna che interviene continuamente dentro il vivere degli uomini e lo sconvolge.

Il che non vuol dire che gli uomini debbano essere passivi, Machiavelli lo diceva, il bene massimo è invece il problema del fare, il problema dell’azione, di un’azione che però ha anche la consapevolezza di questa fragilità.

Perciò, il lessico di Machiavelli valorizza continuamente l’eccessiva virtù.

Tutti questi elementi nella storia, poi, della Fortuna di Machiavelli cadono, e Machiavelli diventa invece quello della ragion di Stato e non viene colta questa tensione fra ragione e pazzia, che invece è uno dei luoghi fondamentali dell’esperienza di Machiavelli.

E, badate, quando dico “pazzia” non penso minimamente alla pazzia di Erasmo da Rotterdam. La pazzia di Machiavelli è tutta laica, tutta civile, tutta protesa a costruire politica, a costruire azioni.

E questo è l’elemento che lo pone dentro il quadro politico e lo mette in una situazione di solitudine. Perché Machiavelli è un uomo che sta sempre in una condizione di solitudine, anche se ha molti amici, molti compagni, molte donne, è un uomo di grande vitalità.

Ma non trova mai un principe che sia grado di seguire quello che dice, non può mai diventare ideologo del principe.

Gli dice Guicciardini: “Tu hai idee sempre stravaganti, tu hai una testa stravagante“. E Machiavelli gli dice, sì, io so di pensare diversamente dagli altri e lo faccio, lo riconosco.

Volevo, poi, venire alla questione del conflitto, che è fondamentale in Machiavelli. È uno dei centri del suo ragionamento, soprattutto nei suoi discorsi.

Nella foto: La tavola rotonda tra Massino Cacciari, Michele Ciliberto, Armando Tormo (moderatore) ed Enrico Rossi, al Salone del libro, in occasione della presentazione del la ristampa del volume, edito da Bompiani, delle opere di Machiavelli

Però Machiavelli non è solo uomo del conflitto, è anche uomo attento alla legge, attento all’ordine. Un conflitto senza legge, senza ordine, degenera nel disordine, nella disunione, nel caos, distrugge la civiltà.

Questa è la differenza fra la storia di Roma e la storia di Firenze.

Perché la storia di Roma è stata una storia nella quale il conflitto fra nobili e patrizi è stato ordinato, regolato, e si è sviluppato attraverso un accrescimento del vivere politico di tutti, del vivere civile di tutti. Cioè è stato un accrescimento di tutta la civiltà. Perché i due umori fondamentali – patrizi e plebei – sono sempre stati in una reciproca tensione che non li ha cancellati.

Mentre, invece, a Firenze è successo il contrario: gli umori si sono reciprocamente annientati. Volta per volta: i patrizi hanno vinto sul popolo, il popolo ha vinto sui grandi. Non sono mai stati capaci di tenere il conflitto in una condizione di reciproca tensione. A Firenze cosa si è avuto? Disunione, discordia, dissenso. Queste hanno impedito che Firenze riuscisse a svolgere nella storia italiana e più in generale nella storia del mondo quel ruolo che avrebbe potuto svolgere, e che svolge non grazie alle sue leggi, ma grazie ai suoi uomini, ai grandi intellettuali di cui si è giovata.

Conflitto sì, ma non cancellazione dell’umore avversario. Conflitto sì, ma equilibrio degli umori che si devono contrastare e contrastandosi fanno crescere il livello complessivo di una civiltà e l’unità di una civiltà. Perché per Machiavelli l’unità di una civiltà è stato un valore politicamente decisivo.

Quindi dobbiamo cogliere appunto questi elementi di un’esperienza complicata di uno che è stato, in primo luogo, un grande pensatore della crisi italiana. Machiavelli, come Guicciardini, vive, soprattutto dopo il 1498, in una situazione di disgregazione dell’Italia, ma anche, diceva Machiavelli, dell’Europa, per il venir meno delle armi, del culto delle armi, del lavoro delle armi.

Ed è stato soprattutto un pensatore che ha lavorato sulla crisi italiana e si è interrogato sui motivi che l’hanno determinata, sui modi per superarla, ma attraverso la concezione della politica che ha tenuto insieme conflitto e ordine, oppure ragione e pazzia.

Di seguito, il video della tavola rotonda ala salone del Libro di Torino in occasione della presentazione della ristampa del volume delle opere di Niccolò Machiavelli, edito da Bompiani. Relatori Michele Ciliberto (che ha curato la ristampa), Massimo Cacciari e Enrico Rossi

 

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