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Migranti, integrazione e lavoro

In che modo si può promuovere l’integrazione dei migranti nel tessuto sociale italiano attraverso il lavoro? Nel ragionare sull’importanza del lavoro come spazio in cui si realizza l’integrazione del cittadino straniero residente in Italia, si devono tener conto di alcuni fattori di natura economica, politica e di mera organizzazione. Il tema della prima accoglienza, infatti, per quanto sia una fase diversa da quella dell’integrazione vera e propria, riveste un’importanza maggiore dovuta alle criticità e alle inefficienze dell’attuale sistema dei Centri d’identificazione ed espulsione (CIE). Il tema rimarrà attuale anche qualora la riforma della rete CIE avverrà secondo le linee proposte dal governo Gentiloni e dal ministro dell’interno Minniti, che prevede centri più numerosi, passando da 4 CIE attualmente attivi a 20 Centri di permanenza per il rimpatrio (CPR) in grado di contenere fino a 1600 persone. Un notevole aumento, visto che oggi i CIE possono ospitare solo fino a 720 immigrati irregolari.

La distinzione fra rifugiati e migranti, che emigrano dal loro Paese per mancanza di prospettive di lavoro adeguate o di mezzi di sussistenza sufficienti, è una distinzione importante, nonostante essa venga strumentalizzata da forze politiche xenofobe per segnare dei semplici “goal” mediatici. Un rifugiato ha infatti diritti, riconosciuti dalla nostra Costituzione, a tutele e protezioni speciali in luogo dell’impossibilità a vedere rispettati i suoi diritti nel suo Paese d’origine. Senza contare le varie convenzioni internazionali: sin dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma nel 1950 e la Convenzione ONU di Ginevra del 1951, l’Italia è sempre stata fra i promotori del riconoscimento dei diritti dei migranti.

“Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”.
Art. 10, comma 3 della Costituzione italiana.

Ai nuovi CIE/CPR e ai già quattro hotspot già esistenti, sono da affiancarsi due nuovi hotspot siciliani. È chiaro che queste misure, comunque la si pensi, non saranno sufficienti ad affrontare il tema dei circa 430mila immigrati irregolari attualmente residenti in Italia. È bene ricordare che irregolare e clandestino non sono sinonimi perfetti. Molte di queste persone sono persone la cui esistenza è fatto noto alle autorità pubblica ma che, per diversi motivi, si trovano ad esempio col permesso scaduto da rinnovare o con una documentazione imperfetta a causa delle inefficienze burocratiche dei loro Paesi di origine. Ma anche coloro che sono nascosti alle autorità, non sono nascosti alla società in quanto tale. Tutti coloro che a conti fatti non possono vivere all’interno dei confini della legalità sono infatti spesso impiegati in maniera criminosa, in nero, e sperimentano sulla propria pelle le forza di fenomeni oppressivi come il caporalato o le varie organizzazioni mafiose; vere e proprie forme di schiavitù. È impossibile risolvere la questione con le sole espulsioni. Pertanto è necessario che vi debba essere uno sbocco legale al soggiorno e alla residenza per gli irregolari che si trovano in queste condizioni, affinché abbiano l’opportunità di integrarsi, lasciando il provvedimento d’espulsione solo per coloro che non vi siano riusciti o che si siano resi colpevoli di atti criminosi.

Anche perché l’ipotesi che una rete di CPR dalla capienza di 32mila posti possa affrontare a colpi di espulsione i 430mila irregolari già presenti sul territorio, il tutto mentre nuovi arrivi giungeranno dai nuovi hotspot (arrivi che ci aspettiamo numerosi finché permarrà l’instabilità politica dell’Africa settentrionale e del Medio Oriente), è un’idea che prima di essere eticamente discutibile è semplicemente irrealizzabile.

Per quanto riguarda i richiedenti asilo e coloro che, in generale, reclamano diritto a vari livelli di protezione sussidiaria, si discute molto circa l’opportunità che essi possano, gratuitamente, svolgere lavori socialmente utili per ripagare la loro accoglienza dallo Stato italiano. La proposta è foriera di gravi rischi da non sottovalutare. Non certo perché sia negativo che i rifugiati lavorino o prestino servizio volontario (come già succede in alcune realtà particolarmente virtuose) presso associazioni benefiche al fianco di cittadini italiani. Il lavoro rimane il primo luogo di inserimento e integrazione di ogni persona nella società e non si può che guardare con favore a una maggiore considerazione di questo aspetto da parte dell’Italia. Ciò che deve preoccupare è che sotto l’ombrello dei “lavori socialmente utili” non si nasconda la possibilità di sfruttamento agevolato, il che andrebbe ai danni sia degli stessi rifugiati, ovviamente, dato che si vedrebbero impiegati in un autentico lavoro produttivo senza percepire la giusta retribuzione, sia verso gli altri lavoratori che vedrebbero una domanda di lavoro venire sopperita da manodopera adoperabile gratuitamente.

È necessario riflettere e vigilare attentamente su quali siano questi lavori socialmente utili. Di cosa si sta parlando? Servire presso la mensa dei poveri locale della Caritas? Dedicare alcune ore ad attività di decoro urbano? Oppure si parla di veri e propri lavori, magari mascherati da stage non retribuiti? Non si possono mettere sullo stesso piano di collaborazione le associazioni benefiche no-profit a imprese che ricercano un utile. Certamente, sarebbe una follia se, con la scusa di non creare competizione con la forza-lavoro italiana, si rendessero i richiedenti asilo in schiavi da utilizzare gratuitamente. Tra l’altro, l’integrazione nel tessuto lavorativo e sociale italiano può avvenire solo il previo insegnamento della lingua italiana, che al momento, benché obbligatorio, pare essere poco efficace a causa anche dello scarso rispetto da alcuni gestioni per le convenzioni strette col governo italiano. Chiedere maggiore impegno su questo fronte sarebbe certamente sensato e porterebbe tante persone qualificate che oggi, per le barriere linguistiche e culturali, fanno lavori estremamente utili, a cercare impieghi più adatti alle loro competenze.

Nuovamente, l’immigrazione tocca il problema più vasto del lavoro e dell’occupazione in Italia e l’atteggiamento che una porzione troppo grande del mondo politico ha verso il lavoro e la sua dignità. Come già successo per l’alternanza scuola-lavoro, quando in Italia si è introdotto lo stage obbligatorio non retribuito, a differenza di quanto succede nel resto d’Europa, bisogna evitare che, dietro una retorica apparentemente vicina a migranti e lavoratori italiani non emerga un nuovo sistema di sfruttamento dannoso per tutti. Benché sia impossibile risolvere la questione migratoria senza prima affrontare in maniera appropriata la questione del lavoro in quanto tale in Italia e l’instabilità politica nei Paesi di origine e di transito dei migranti, ciò non dovrebbe impedire di affrontare nel miglior modo possibile le sfide presenti.

In questo l’Unione Europea ha spesso lasciato sola l’Italia. La Commissione preferisce donare miliardi a Erdogan, Presidente della Turchia, per detenere in condizioni discutibili decine di migliaia di persone, anche aventi diritto all’asilo, piuttosto che supportare l’Italia nella costruzione di una rete di accoglienza e integrazione umana. Le iniziative di condivisione del flusso di rifugiati sono poi osteggiate soprattutto dai Paesi dell’Europa orientale: proprio coloro che ricevono dall’UE (e quindi dai contribuenti europei) più di quanto paghino alle istituzioni europee, si lamentano e disperano di fronte alla prospettiva di poche centinaia di rifugiati, adducendo talvolta motivazione apertamente xenofobe, quali la religione non-cristiana dei possibili nuovi arrivi; eppure in questo fronte l’Italia non è isolata, visto che altri Paesi europei, come la Svezia, la Germania, la Francia ed altri, hanno accolto quanti e più richiedenti asilo pro-capite dell’Italia. Senza un’assunzione di responsabilità da parte dell’Unione Europea, che decida di rimettere in riga i Paesi dell’Est, e senza una revisione della Bossi-Fini possiamo star certi che l’immigrazione rimarrà un problema costante, a cui poco e nulla potranno porre rimedio la nuova rete di CPR e i provvedimenti di espulsione.

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