Guerriglia digitale

Stop alla guerriglia digitale: per tornare a parlare di valori, ripartiamo dalle parole

Le parole sono importanti. È attraverso le parole che ci esprimiamo ma, allo stesso tempo, attraverso il loro uso si formano e si diffondono le idee. Niente di male se non fosse che oggi queste parole sono tante, a volte persino troppe: il dibattito pubblico è un fiume in piena che ci sommerge di termini martellanti, ossessivamente ripetuti fin quando non diventano gergo comune, vox populi, comune sentire.

Certo, si tratta di un fenomeno globale, tipico dell’era dei social network, ma che in Italia è amplificato dalla televisione: non solo la battaglia politica si gioca su Facebook e Twitter a colpi di hashtag martellanti e di “condividi se sei d’accordo”, ma in tv la rissa quotidiana tra i sostenitori delle fazioni in lotta va in scena sul ring a ciclo continuo dei talk show, in onda dalle 8 del mattino a mezzanotte. Siamo letteralmente inondati da un fiume di parole che per settimane occupano la scena in attesa di un nuovo caso, di un nuovo tema da gridare: la razza, l’invasione, la casta, i vitalizi, i vaccini, lo ius soli, il job act, la mamma, di volta in volta sostenute, sbandierate e piegate all’uso del momento da rappresentanti di tifoserie diverse che dagli studi televisivi chiamano il cittadino all’azione, alla lotta, alle armi.

Un meccanismo un po’ subdolo che ci sta trasformando a poco a poco da cittadini consapevoli a tifosi digitali, che a casa, davanti al piccolo schermo, parteggiano per l’uno o per l’altro, che accumulano rabbia e frustrazione e poi la riversano sui social dando libero sfogo al bagaglio di nuovi insulti coniati a ciclo continuo dai comunicatori politici: pidioti, webeti, grullini, gufi & rosiconi.
Perché alla fine nessuno ha tempo di spiegare, di argomentare, di chiarire e, francamente, a pochi interessa: né i tempi televisivi né gli spazi di un post lo consentono. Non c’è tempo di approfondire: è diventato indispensabile semplificare l’ondata di parole e opinioni che ci sommerge, abbiamo bisogno di una griglia, uno schema che ci consenta di incasellare e definire il nostro interlocutore. Insomma capire subito da che parte sta. O con noi o contro di noi.

Ecco così il fiorire di vecchie e nuove appartenenze: ci sono i grillini, i renziani, i berlusconiani (per gli amanti del leader di turno), ci sono gli scissionisti, i no-vax, i rottamatori, i leghisti, i razzisti, gli odiatori. Ora sono tornati fuori pure i fascisti.
Sommersi dalla comunicazione politica, chiamati alle armi a combattere le battaglie dell’arena digitale, il preconcetto è il nostro scudo, l’ideologia il nostro elmetto ed il pregiudizio la nuova lancia.

I social network, quindi, attraverso il sistema della condivisione dei contenuti, diffondono, veicolano e replicano non solo parole, ma una visione, un’idea, un concetto. In definitiva un’impostazione culturale. Un concetto banale, niente di nuovo, ma in troppi anche nel centrosinistra sembrano non rendersene conto.

Dove ci porterà tutto questo non lo so, ma so che questo clima da “tutti contro tutti” va fermato. Perché non sta producendo niente di buono per il Paese. Anzi, nella guerriglia digitale quotidiana si aprono spazi nuovi per il riemergere degli istinti peggiori e delle ideologie più retrive. In questo clima stiamo contribuendo a ridare dignità e legittimazione a ideologie che pensavamo fossero ormai alle spalle e intanto i social network si riempiono di un linguaggio sprezzante, carico di odio e di rabbia.

Se vogliamo reagire all’involuzione culturale, se vogliamo rompere questo schema, iniziamo prima di tutto dal linguaggio che usiamo tutti i giorni. Riappropriamoci delle parole che contano, quelle che rappresentano i valori che ci accompagnano nel nostro agire quotidiano e che vorremmo al centro dell’agenda politica: lavoro, dignità, coerenza, lealtà, impegno e facciamo uno sforzo per mettere da parte i neologismi del momento. Discutiamo, approfondiamo, confrontiamoci ma, per favore, proviamo a bandire dalle nostre riflessioni il gergo calcistico e quello militare, sdoganati nel dibattito pubblico da Berlusconi negli anni ‘90 e rilanciati ogni giorno da tanti politici di centrosinistra.
Cominciamo da ora a ripulire il linguaggio da nuove, orrende, parole come rosiconi e gufi, pidioti, webeti e grullini e via insultando. Perché altrimenti, senza rendercene conto, continuiamo ad alimentare con le parole quell’involuzione sociale e culturale a cui vorremmo in qualche modo reagire.
In definitiva, per tornare a parlare di valori, ripartiamo dalle parole.

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