Two activists with the EU flag and Union Jack painted on their faces kiss each other in front of Brandenburg Gate to protest against the British exit from the European Union, in Berlin, Germany, June 19, 2016. REUTERS/Hannibal Hanschke

Brexit, se i giovani avessero votato…

Pensavo che fosse uno scherzo, o più propriamente una provocazione da social network, di quelle che uno butta lì, come la prima cosa che gli viene in mente, con pochi caratteri, senza riflettere. Mi riferisco all’idea di chi, dopo la Brexit, ha sostenuto che siccome gli anziani inglesi hanno votato per il leave condizionando il futuro dei giovani (in maggioranza per il remain), forse sarebbe opportuno rivedere “questa cosa del suffragio universale”. A questa affermazione fa da corollario l’idea che non si possa mettere nelle mani di un popolo disinformato la decisione su una cosa così importante. E, per i più raffinati (leggi Giorgio Napolitano su “la Repubblica” di sabato 25 giugno), che questi sono i limiti della democrazia diretta e che l’unica democrazia veramente tale è quella rappresentativa.

Purtroppo non è una boutade: c’è davvero una discussione cui partecipano politici, editorialisti e opinionisti su questo tema che tocca, niente di meno che i fondamenti della democrazia, oltre che un artificiale conflitto generazionale.
Gianni Del Vecchio su Huffington Post il 24 giugno così apriva la sua invettiva contro i vecchi: “L’egoismo dei pensionati inglesi ci sta fregando il futuro. E’ questa la tragica verità. Per noi under 40 ancora una volta a decidere sono stati gli altri. I nostri padri o peggio ancora i nostri nonni”. A sostegno di questa inveterata, Del Vecchio convoca le stime dei sondaggi che davano la popolazione inglese fra i 18 e i 24 anni favorevoli al remain al 64%, mentre gli over 65enni al 58% per il leave: gli anni, secondo una aspettativa di vita di 89, con cui i giovani dovrebbero vivere con gli effetti di questa decisione son ovviamente tre volte quelli degli anziani. Un calcolo semplice, da cui qualcuno, come Alessandro Rosina su “la Repubblica” del 26/6/2016 (“L’ipoteca dei vecchi sul futuro dei giovani”), fa discendere l’opportunità, la necessità di ponderare il voto dei cittadini a seconda dell’età: “necessità di allentare il vincolo che impone che il voto di un ottantenne valga come quello di un ventenne su temi che condizionano soprattutto il futuro di quest’ultimo”.

Ma qui c’è innanzi tutto un errore di fondo: in realtà il futuro dei giovani inglesi è stato fregato … dagli stessi giovani. Infatti, in quella stessa fascia d’età fra i 18 e i 24 anni, coloro che si sono recati a votare sono stati solo il 36%, mentre gli anziani over 65 sono andati a votare per oltre l’83%: se veramente i giovani 18-24 avessero avuto a cuore il proprio futuro o se avessero percepito il referendum come una questione in cui effettivamente era in gioco il futuro, sarebbero dovuti andare quanto meno a votare e, dato il margine di appena 1 milione di voti fra in e out, avrebbero certamente determinato un diverso risultato. Quindi il gioco retorico di Del Vecchio non regge alla prova dei fatti (anche perché la partecipazione o meno al voto è un dato oggettivo, mentre le propensioni al voto fra coloro che hanno partecipato non può che essere un sondaggio).

Ma a me pare ancora più grave il fatto che, nel XXI secolo, ad appena 70 anni dalla conquista del suffragio universale, questo possa essere oggetto di dibattito serio in Italia. Giacché, se si accetta l’idea – oggettivamente antidemocratica – che il voto non debba essere “personale ed eguale, libero e segreto” in virtù del fatto che “Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età” (art.48 Costituzione), bisognerà pure assumersi la responsabilità di dire su quali basi, oggi, in una democrazia moderna, si possa concretamente motivare un suffragio parziale, in cui il voto di taluni pesi più di quello di altri cittadini, cioè non sia più eguale. Quale può essere un criterio che possa “allentare il vincolo” (anche se a me parrebbe piuttosto una conquista l’acquisizione costituzionale del principio democratico “una testa, un voto”) dell’eguaglianza del voto? L’anzianità? E quale sarebbe il limite per tale discriminazione? 65, 72, 80 anni? E chi lo decide? Va da sé che se si accetta, come Rosina, che il voto possa pesare diversamente soprattutto sui temi che condizionano il futuro dei giovani, bisognerà pure ammettere che, ad esempio, sulle leggi sull’assistenza sanitaria il voto degli anziani pesi più di quello dei giovani essendo i primi, verosimilmente, secondo le statistiche, maggiori fruitori della stessa che non i secondi. Ma così, si scivolerebbe verso una “democrazia” (se così ancora la si potesse chiamare) delle corporazioni, in cui ciascuno si vota le sue leggi. Una follia totale, che mi meraviglia possa trovare spazio su quotidiani nazionali seri.

Ma a questa nuova legge del suffragio diversificato, si aggiunge un corollario: si dice che su certe questioni così importanti non dovrebbe votare un popolo che per larga parte è ignorante o disinformato. Ecco un altro obbrobrio giuridico e una tentazione autoritaria: chi decide chi è sufficientemente preparato e informato per votare? Oppure chi decide quando un popolo è pronto e maturo per votare? E come lo si stabilisce? Votano solo coloro che hanno la licenza media e superano un test attitudinale? Al voto per censo in uso fino alla prima metà del Novecento (quando si pensava che le donne non fossero sufficientemente informate per votare, infatti in Italia votarono per la prima volta soltanto nel 1946), si sostituisce il voto per titolo di studio? Anche questa è l’anticamera della contrazione degli spazi democratici fino a diventare la porta di accesso ad una “democratura”, un sistema con forti stigmi autoritari.

La reazione a caldo ad un evento certamente infausto come l’esito del referendum sull’uscita dall’Unione Europea della Gran Bretagna sembra far dimenticare che la forza propulsiva della democrazia moderna, che l’ha resa tutto sommato nel giro di pochissimi anni, il regime politico più diffuso nel mondo, sta tutta qui, nel suo carattere universalistico ed egualitario. Anche solo l’ipotesi di “allentare questo vincolo” la renderebbe internamente contraddittoria e inconsistente.
A questa evidente assurdità, rispondono i più raffinati sostenitori di questa concezione riduzionistica della democrazia, con una soluzione semplice: su questi temi così decisivi e divisivi non si ricorre al popolo. La vera e sola democrazia è quella rappresentativa: una volta che il popolo ha scelto i suoi rappresentanti (magari con un bel premio di maggioranza per garantire la governabilità che, evidentemente, è considerato bene più importante della rappresentanza), lasci decidere a loro e si disinteressi delle grandi questioni che riguardano il suo futuro; avrà comunque la possibilità di dire la sua alle prossime elezioni politiche. Questi fautori di una democrazia soltanto rappresentativa tendono a rubricare qualunque intervento diretto del popolo nell’ambito decisionale come un richiamo populista e si preoccupano di svuotare tutto lo spazio esistente fra elettori ed eletti fra una elezione e l’altra. Ma questa è una visione ben misera della democrazia, nella quale il sovrano (che nella nostra Costituzione è pur sempre il popolo) si spoglia dello scettro un secondo dopo aver depositato la sua scheda nell’urna e lo dimentica per 5 anni.

E’ evidente questa idea (e pratica) della democrazia presenta molti limiti, fra i quali proprio quello di alimentare quello che vorrebbe limitare, il populismo. Infatti, se il solo momento in cui si riattiva il rapporto fra elettori ed eletti è quello elettorale, è evidente che i candidati tenderanno ad alzare i toni dello scontro, ad aumentare sproporzionatamente le promesse non verificabili, oltre che a giocarsi tutto in quel momento catartico delle elezioni, in cui concentreranno soldi, potere e clientele. Non solo, ma il popolo che si pretende troppo ignorante per affrontare in un referendum questioni grandi e complesse, come potrebbe informarmi e comprendere della complessità della politica in un vuoto di rapporti fra lui e la cosa pubblica fra una elezione e l’altra? In una assenza di relazioni e di momenti di verifica e decisione (fatti anche di strumenti di democrazia diretta) la classe politica, gli eletti, saranno sempre più delegittimati, avvertiti come lontani dagli elettori.

La delega non esaurisce la democrazia; ne è una componente molto importante, ma solo in un equilibrio – necessariamente precario – fra rappresentanza e partecipazione possiamo sperare che la democrazia cresca invece di inaridirsi. Naturalmente, in ogni chiamata al popolo sovrano vi è una dose di rischio: che l’esito sia completamente diverso da quello sperato dai promotori, che si manifestino imbonitori e populisti, che il quesito abbia implicazioni troppo complesse da riassumere in un sì o un no, ecc. Ma è anche vero che ogni momento di democrazia diretta chiama in causa la responsabilità della politica, degli eletti che proprio in quanto delegati, devono sentire l’onere di fornire gli strumenti di comprensione, di promuovere la partecipazione consapevole, di “educare” in certo qual modo il popolo alla democrazia.

GOVERNARE UNA DEMOCRAZIA – E’ un compito nobile, decisivo, ancorché gravoso questo che è parte integrante del governare in una democrazia. Per questo non è possibile accettare di sentir dire da chi riveste (o ha rivestito per lunghi anni) cariche istituzionali importanti che il popolo non è preparato, non capisce, oppure che su alcune cose così importanti il popolo non dovrebbe essere chiamato a decidere, giacché questo elude completamente le proprie responsabilità. La democrazia è un regime precario, sempre in delicato equilibrio e, come diceva giustamente Walter Veltroni nella sua intervista a “la Repubblica” del 26/6/2016, “non è detto che la democrazia … in una società così frenetica, presentista ed emotiva sia la forma di governo considerata naturale. Nascerà alla fine un pericoloso desiderio di semplificazione dei processi di decisione”. Ma il rischio di semplificazione non sta solo in un eccesso, eventuale, di richiamo al popolo attraverso referendum, ma anche all’opposto nel tentativo di bypassare completamente il popolo perché non si è sicuri che ci dia la risposta desiderata (del resto il referendum britannico è stato voluto dal Primo Ministro Cameron che vedeva in esso la possibilità di rafforzare la sua vacillante leadership). La democrazia deve vivere in una eterna crisi, cioè in una sfida, un cambiamento possibile continuo (se non altro per il fatto di essere contendibile ogni volta da impostazioni politiche opposte); in una tensione fra rappresentanza e partecipazione in cui vi deve essere una sola certezza, la fiducia e il riconoscimento fra rappresentanti e rappresentati.

DAL PATERNALISMO ALL’AUOTORITARISMO? – Quando i primi cominciano a pensare che i secondi siano inadatti a decidere, dal paternalismo si rischia di scivolare rapidamente nell’autoritarismo. Che nel XXI secolo non prenderà le forme di eserciti che procedono al passo dell’oca o di dittatori con camice nere; assumeranno piuttosto toni più edulcorati, tecnologici. Ma in questo rischio io comprendo anche un’idea della democrazia del tipo “non disturbare il manovratore”, come a me sembra essere quella presentata da Giorgio Napolitano: “l’esperienza del referendum inglese dimostra che la scorciatoia della scelta tra un sì e un no si presta ad ogni sorta di stravolgimento demagogico ed emotivo. …Non ci sono indiscriminate ipotesi di appelli referendari né forme risolutive di democrazia e sovranità affidate alla Rete che ci esimano dal rilanciare la partecipazione politica più ampia e la valorizzazione delle istituzioni rappresentative…” e finisce con il perorare la causa della riforma costituzionale italiana, una questione assai complessa che, appunto, sarà risolta attraverso un sì o un no.

La traslazione dalla vicenda inglese a quella italiana (quello inglese è stato un referendum vero, niente a che vedere con la Rete del M5S…) nasconde malamente la propensione per una democrazia che tiene quanto più possibile lontano i cittadini dalla funzione di governo che viene affidata a rappresentanti illuminati che sanno cosa è bene e cosa è male per loro e trovano le soluzioni sempre più giuste e appropriate. Ma chi decide quali siano le soluzioni più giuste? E se domani le istituzioni rappresentative fossero in mano ai populisti di oggi (i Farage, le Le Pen o i Trump o, come già avviene in Ungheria, gli Orban)? E se non si ascoltano i cittadini per vicende così importanti come l’Unione Europea, per cosa altro dovremmo interpellarli? Forse nel 1946 è stato un azzardo indire un referendum per far scegliere agli italiani fra monarchia e repubblica? Anche in quel caso è stata la qualità della classe politica che ha fatto la differenza, dimostrandosi capace – non senza contraddizioni e contrasti – di gestire un delicato passaggio di maturazione di un popolo in una fase di transizione difficile fra un regime politico e l’altro. Ebbene, io penso che per la portata del progetto di integrazione europeo, noi ci troviamo in una condizione analoga (per fortuna, senza una guerra alle spalle): o il progetto europeo trova le idee e il consenso per diventare la vera innovazione culturale, politica e istituzionale del XXI secolo, oppure esso è destinato a morire per consunzione. Qui si misureranno le classi dirigenti di oggi e di domani, affrontando e parlando con i popoli europei, non certo evitandone il giudizio o cercando di addomesticarne gli strumenti di decisione.

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