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Credevamo fosse amore, invece era un calesse

A dar retta ai maggiori quotidiani, pare che il presunto amore tra Matteo Renzi e il Partito Democratico sia giunto ai titoli di coda. Ammesso che sia mai sbocciato veramente e che “pennivendoli e puttane” del Corriere e della Repubblica non spaccino fake news. In attesa che Di Battista risponda al mio sms di chiarimenti in materia e mi illumini sulla questione, il sospetto che non sia una notizia campata in aria è davvero forte. Infatti, la prima ad aver insinuato la circostanza che Renzi si stesse organizzando autonomamente è stata Maria Teresa Mieli che, notoriamente, negli ultimi anni è stata una rigorosa vestale di Renzi e del renzismo.

Si stanno sprecando commenti preoccupati dei massimi dirigenti democratici.

L’uso del verbo non è casuale. “Sprecare”, secondo la definizione del dizionario Zingarelli (faccio riferimento solo ed esclusivamente a questo. Si chiama “sovranismo comunale”. Nicola Zingarelli era, infatti, nativo di Cerignola), significa consumare senza discernimento, senza frutto o senza risultati adeguati. Insomma, cimentarsi in qualcosa di sommamente inutile. Come quei commenti, appunto.

A me che Renzi vada o resti mi interessa il giusto e il giusto, in questo caso, è assai prossimo allo zero.

Mi irritano, e non poco, tutto questo stracciarsi di vesti in nome dell’unità. Ma unità su che? La risposta a questa domanda è assente dai tempi del Lingotto. Quello del 2007, intendo.

Una nuova scissione sarebbe, secondo, ad esempio, Minniti, un regalo ai populisti e un pericolo per la democrazia.

A parte il fatto che il “mai stato comunistaMinniti a ‘sti pericoli per la democrazia ci ha fatto l’abbonamento e li evoca in ogni circostanza. La penultima in ordine di tempo fu a proposito degli sbarchi di immigrati. Li ha, se non fermati, notevolmente ridotti, bisogna riconoscerglielo. Bisogna riconoscerlo a lui e, soprattutto, al “mai stato gheddafianoKhalīfa Belqāsim Ḥaftar e alle sue pacifiche e umanitarie milizie. Il risultato di tanto impegno è stato meno migranti più leghisti. E non so, tra le due categorie, quale rappresenti una seria minaccia per la democrazia italiana.

A parte questo, dicevo, credo che di regali ai populisti ne siano stati fatti diversi negli ultimi anni e non sarà certo il destino politico di Renzi ad aggiungere o sottrarre nulla al riguardo.

Allora, anche a costo di far saltare più d’uno dalla sedia, Renzi lo difendo io. Non è una battuta, sono estremamente serio.

Renzi, se dovesse uscire dal PD e dar vita ad una nuova forza centrista sul modello En marche di Macron, compirebbe una notevole e, soprattutto, meritoria operazione politica. Meritoria perché sarebbe un’operazione che restituirebbe chiarezza e, forse, credibilità alla politica di centro-sinistra (il trattino non è un refuso, ma ha una valenza politica precisa. Chi proviene dal PCI sa quante notti insonni il marxismo-leninismo, con o senza trattino, abbia causato).

Nascerebbero , quindi, due forze politiche ben distinte. Una di chiara impronta liberal democratica, l’altra che si ispiri esplicitamente ai valori del socialismo. Due grandi culture che tra loro possono competere, anche confliggere, ma che possono dar vita ad alleanze sui programmi.

Sui programmi ci si può unire, sulle “identità” non ci si può fondere.

Io non chiederò mai a Renzi, per usare una espressione cara a Franco Marini, di morire socialista.

E’ giusto che anche lui mi consenta di non campare da liberal democratico.

Abbiamo provato a far finta per anni che eravamo fatti gli uni per gli altri, poi, come Massimo Troisi nel suo film, abbiamo capito che non è cosa.

Siamo destinati a rincontrarci. Forse. All’interno di uno stesso condominio, però, non dello stesso appartamento.

Eventuali punti di convergenza, eventuali alleanze devono poggiare, però, su opzioni programmatiche che non si riducano semplicemente ad essere “anti”: antisovraniste, antipopuliste, antifasciste. Certo, ci dovrà essere anche questo. Ma è il minimo sindacale, diciamo.

Oltre a dire chiaramente che la nostra idea di Europa è lontana sideralmente da quella di Junker o dello stesso Moscovici, bisognerà trovare e imporre all’attenzione dell’elettorato temi forti e chiari. Ad esempio, se sono un Paese del “blocco di Visegrad” e ho una idea di Europa per cui mi stanno benissimo i vantaggi (leggi: finanziamenti. Ci sono entrato per quello. Oltre che per permettere qualche facile e “legittima” delocalizzazione), ma ripudio unilateralmente i (pochi) oneri (tipo accogliere qualche centinaio di migranti, come da accordi), allora scattino procedure di infrazione severe, sino, perché no, all’esclusione dalla stessa Unione Europea. Perché sarà pure giusto prevederle per ragioni di natura finanziaria e di bilancio, ma non si capisce come mai sul resto si faccia un po’ come si vuole senza serie conseguenze.

Questo per l’Europa. Ma non è che in Italia l’eventuale chiarezza nello scenario politico risolva di per sé tutti i problemi.

Torno a Minniti. A proposito di qualcosa di emblematico che ha rotto il rapporto tra riforme e popolo, il “mai stato dalemiano” cita la Buona Scuola. “E’ stata un simbolo – dice – Abbiamo messo in campo dei provvedimenti importanti ma non li abbiamo fatti camminare sulle gambe dei docenti e degli studenti”. Quisquiglie, pinzillacchere, direbbe Totò. Ed infatti chiosa: “Quello è stato il segno di una rottura, uno scacco politico”.

La Buona Scuola? Perché il Jobs Act, l’Italicum, la stessa riforma costituzionale sono state il frutto del confronto con qualcuno? E non mi riferisco a soggetti esterni al PD, ma al partito stesso: ognuno di quei provvedimenti sopra ricordati è stato approvato dalla Direzione con contenuti significativamente diversi da quelli poi adottati dal Governo e votati dal Parlamento.

Questi sono i regali fatti a Giggino e a Matteo (quello di Milano), altro che la presunta e probabile scissione di Renzi e Scalfarotto (cito quest’ultimo solo per sollecitare la lettura delle sue dichiarazioni al proposito del casting in corso per il reclutamento nei nascenti “Comitati Civici”. Roba da farci urlare “aridatece Dell’Utri e Publitalia!”).

Ecco, la chiarezza del futuro politico del centro-sinistra passa anche dal metodo con cui saranno adottate le decisioni, oltre che dal merito.

Perché sia chiaro un punto a tutti, neo liberlademocratici e neosocialisti che siano, e cioè che, al Sud ad esempio, qualcosa a quella marea di disoccupati senza speranza per il proprio futuro bisognerà pur dirla. Mica penseremo di dire loro di fidarsi delle capacità salvifiche del libero mercato e del sole dell’avvenire?

Al “reddito di cittadinanza” cosa opponiamo considerato che la quotidiana denuncia dell’uso assai disinvolto della consecutio temporum non pare far perdere consensi ai governanti gialloverdi?

Ecco, dopo la chiarezza la concretezza. Per favore.

Foto in evidenza: Matteo renzi, Marco Minniti

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