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Governare l’impoverimento: un compito difficile

Verità e conflitto sono due aspetti richiamati nel dibattito su Machiavelli ospitato in queste pagine. Proviamo allora ad applicarli alla attuale situazione del paese.
La verità vorrebbe che si ricordasse una volta per tutte che questo paese è destinato ineluttabilmente ad impoverirsi per colpe che non vanno cercate nell’Euro o nelle masse di immigrati che provengono dai paesi del sud del mondo. Le colpe vanno piuttosto cercate nel nostro passato poco virtuoso, che ci ha condotto ad un rapporto tra debito e Pil troppo alto. Un rapporto che non è un freddo numero, ma è piuttosto l’espressione di quanto malamente negli anni passati sono stati utilizzati i risparmi degli (e non solo) italiani. Il debito non è un male se ben utilizzato ma, se così fosse stato, anche il Pil sarebbe cresciuto in proporzione: questo evidentemente non è accaduto se nel giro di un ventennio siamo passati da un rapporto di poco più del 40% (inizio anni settanta) al 120% (inizio anni novanta). Si può dire che abbiamo vissuto al sopra delle nostre possibilità.

Oggi non possiamo più permetterci di mantenere quel modello, ma non perché ce lo impone l’Europa o le teorie degli economisti, ma perché ce lo impongono le regole del buon padre di famiglia. Se vogliamo rimediare abbiamo due sole possibilità: o cerchiamo di imboccare il sentiero opposto, ovvero rinunciamo ad un po’ del nostro benessere di oggi per favorire investimenti in grado di creare capacità produttiva per il futuro; oppure – e sarebbe certamente meglio- operiamo affinché qualcuno dall’esterno (leggi Europa) ci dia una mano.

Si tratta – soprattutto nel primo caso- di far fronte ad un impoverimento collettivo dal momento che rinunciare oggi a porzioni del benessere raggiunto per ricostruirlo domani vuol dire, per il momento, impoverirsi aspettando tempi migliori.
La politica, abituata a governare per decenni nell’idea di risorse abbondanti (in parte prese a prestito), oggi non riesce a dire che quella stagione è finita e, talvolta, addirittura la rilancia attribuendo ad altri la colpa se non riesce a mantenere le promesse. È solo dicendo la verità- sebbene sgradita- che sarebbe possibile impostare un serio programma di governo; ma questo pare elettoralmente poco remunerativo. L’esito è che chi promette vince le elezioni, va a governare e dopo qualche mese, di fronte alla ineluttabile verità, perde tutti i suoi consensi (Renzi docet).

Il secondo punto è il conflitto; perché affrontare il problema dell’impoverimento vuol dire individuare chi oggi deve pagare per risanare e rilanciare la crescita. L’impoverimento è cosa triste che si preferirebbe nascondere, ma va ricordato che siamo ancora tra i paesi più ricchi del mondo per cui l’operazione non sarebbe, nel complesso, drammatica se ben gestita. Per gestirla però prima bisogna riconoscerla e poi, se vogliamo governarla, occorre affrontare il conflitto che ne deriva.
Per far questo ci sono tre criteri da tenere presenti: un criterio di equilibrio rispetto ai privilegi del passato; un criterio di equilibrio nella società attuale; un criterio di efficienza.

Dal primo punto di vista, se è vero che è soprattutto nel ventennio sopra richiamato che il rapporto debito/PIL si è impennato, è evidente che sono soprattutto coloro che hanno vissuto quella fase che si sono avvantaggiati. I vantaggi sono riscontrabili in parte nelle dotazioni patrimoniali che hanno potuto conseguire e in parte nelle pensioni maturate secondo criteri ben diversi da quelli attuali. Quindi un’azione su entrambi i fronti (reintrodurre l’IMU anche sulla prima casa e rivedere i livelli pensionistici) sarebbe del tutto giustificata, rispettando naturalmente il secondo criterio, quello di giustizia sociale.

Infatti, qualunque intervento non deve generare povertà e non tutti i possessori di una abitazione o titolari di una pensione, sono ricchi; spesso conducono un tenore di vita modesto vivendo in una piccola casa e con una pensione minima. Quindi, se si vuole evitare che cadano in povertà debbono essere esonerati dal contribuire. Ma l’IMU è stata risparmiata a persone che dispongono di un reddito anche molto elevato; quanto alle pensioni occorre ricordare che, se si fissasse un tetto massimo a 3000 euro mensili, troveremmo qualcosa come 15 miliardi di euro su cui qualche operazione -magari a favore dei giovani- sarebbe forse possibile (Corte Costituzionale permettendo).

Naturalmente non si può dimenticare il terzo requisito, quello dell’efficienza. Sappiamo infatti che se vogliamo uscire dall’impoverimento è necessario un serio rilancio degli investimenti, da parte del pubblico, ma anche da parte dei privati, per cui questi ultimi devono essere sostenuti quando intendono procedere in tale direzione. Chi investe e crea occupazione contribuisce a rilanciare il futuro.

Non è facile tenere assieme i tre criteri, per cui qualche aiutino esterno non sarebbe da disdegnare, in modo da disporre di qualche risorsa in più. In tal senso ha senso trattare con l’Europa, ma non per attribuirgli colpe che forse non ha, ma per costruire un’idea di Europa che tenga conto simultaneamente del principio di solidarietà e di competitività.

Dal primo punto di vista (solidarietà) occorrerebbe che quanto meno i mali creati dalla Grande Crisi, venissero coperti dall’Europa. Ovvero la maggiore disoccupazione e la maggiore povertà che è stata provocata dalla crisi dovrebbe essere sostenuta con risorse europee e non lasciata in carico ai singoli paesi perché è ovvio che chi ha subito i maggiori danni non ha risorse sufficienti ad affrontarli.

Dal secondo punto di vista (competitività) è necessario che le forze buone esistenti un po’ ovunque venissero protette e non costrette a subire il peso di trovarsi in un paese che non è da solo in grado di sostenerle. In molte parti del paese abbiamo imprese in grado di sostenere con successo la concorrenza internazionale; tuttavia in un contesto in cui vengono lesinate le risorse per investimenti pubblici è possibile che prima o poi siano costrette ad abbandonare il campo. Ricordiamo che l’Italia ha un saldo commerciale positivo col resto del mondo e negativo con l’Area Euro: ciò significa che le sue imprese esportatrici attirano in Europa risorse provenienti dal resto del Mondo. Perderle sarebbe un male per l’intero continente.

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