Hamilton Dollaku

Hamilton Dollaku: Un diritto spacciato come privilegio, no al numero chiuso

Due giorni fa il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, su ricorso dell’UDU (Unione degli Universitari), ha sospeso il numero programmato a tutti i corsi di laurea dell’area umanistica dell’Università degli Studi di Milano. Si apprende dalle ultime dichiarazioni che non sarà sicuramente il pronunciamento del TAR Lazio a fermare il Rettore della Statale Gianluca Vago, che ha subito annunciato il ricorso al Consiglio di Stato, definendo il provvedimento approvato dal Senato Accademico dell’Ateneo milanese “un’ipotesi di buon senso, necessaria per rispondere a quanto il Ministero ci chiede”.

Insomma, l’Ateneo, dice il Rettore, non poteva far altro che adeguarsi alle norme nazionali ed in particolar modo al Decreto Ministeriale del 12 dicembre 2016, n. 987, che impone un preciso rapporto docenti/studenti. In questo caso, se il rapporto non viene rispettato, allora il corso di laurea non può essere accreditato dall’ANVUR e, se supera i limiti previsti, deve essere chiuso. Secondo il TAR invece i requisiti di docenza non sono una giustificazione sufficiente per varare il numero chiuso, in quanto non previsti dalla legge n. 264 del 1999. Paradossale, inoltre, anche quanto sancito dalla legge stessa secondo la quale il numero di studenti si dovrebbe adeguare alle strutture e agli investimenti che lo Stato decide di stanziare alle università, quando, diversamente, dovrebbe essere lo Stato chiamato ad aumentare gli investimenti in modo tale da garantire a tutti l’accesso al mondo universitario.

Nel frattempo gli unici che continuano a pagarne le conseguenze sono gli studenti, che, vedendosi annullare i test in cambio dell’iscrizione “con riserva”, restano nell’incertezza, la stessa che avrebbero dovuto subire anche dopo aver sostenuto i test “lotteria” fino alla pubblicazione dei risultati e dei successivi scorrimenti in graduatoria. Se da una parte l’intervento legale dell’UDU cerca di garantire quanto sancito dall’Art. 34 della Costituzione italiana, dall’altra l’assenza totale di politiche mirate a ridare dignità al mondo dell’istruzione è sotto gli occhi di tutti.

Le mancanze, però, non sono attribuibili solo ai governi di centrodestra, da sempre sponsor ufficiali del test come strumento di selezione, ma anche a quelli che in teoria si sono etichettati come centrosinistra. In questi anni, oltre ai bonus pre-elettorali, nessuno dei ministri ha mai studiato una strategia seria su come smantellare il numero chiuso. Tuttavia è importante sottolineare come ai provvedimenti del MIUR non sia mai seguita un reazione da chi, in piena autonomia, governa i vari atenei. Infatti l’aumento delle immatricolazioni nei corsi ad accesso libero ha avuto come conseguenza diretta una moltiplicazione indiscriminata dei numeri programmati imposti dai singoli atenei, che ledono nuovamente e ulteriormente il diritto allo studio.

Nella foto: Una manifestazione dell’Udu

Nell’ultimo decennio questa situazione ha provocato un calo non trascurabile degli iscritti e delle immatricolazioni. Il sospetto che più volte sorge a chi si occupa di rappresentanza studentesca è che attraverso i vari requisiti imposti dal MIUR, come per esempio lo stesso D.M. del 12 dicembre 2016, n. 987, nei vari atenei si stia esercitando (volontariamente?) un ruolo di indirizzo politico molto lontano da quello del libero accesso. Ci sono poche aule o aule troppo piccole? Tagliamo il numero degli studenti. Ci sono pochi professori? Tagliamo il numero degli studenti. Ci sono pochi laboratori? Sicuramente il problema sono i troppi studenti che vogliono istruirsi. Ovviamente questo modus operandi avrà solo un effetto: il collasso graduale del diritto allo studio, con l’eventuale chiusura di qualche università (molto probabilmente del sud). Poco importa se secondo gli ultimi dati Eurostat l’Italia si trova al penultimo posto per numero di laureati nella fascia di età tra i 30 e i 34 anni, meglio solo della Romania.

Da ultimo, ma non meno importante, è il contrasto dicotomico che si è venuto a creare tra gli studenti dentro e fuori dai corsi a numero programmato. Infatti è luogo comune pensare che il numero chiuso faciliti la ricerca di un lavoro, cosa ovviamente falsa. Prendiamo come esempio il corso di laurea in medicina e chirurgia, uno dei più gettonati dai maturandi. E’ di pochi giorni fa l’allarme lanciato dal sindacato Anaao, che denuncia la mancanza di 800 medici l’anno, in quanto quelli che vanno in pensione non riescono ad essere sostituiti dai nuovi ingressi, tant’è che l’emergenza ha spinto l’assessore alla sanità della Regione Emilia-Romagna a proporre l’abolizione del numero programmato.

Ha, quindi, davvero senso continuare con questo sistema? Nel corso degli anni i ricorsi vinti e la progressione della carriera accademica dei vincitori hanno da subito dimostrato come il test non serva a selezionare “il più bravo”, ma il più fortunato, per non dire il più ricco. Infatti il sistema non garantisce nemmeno il dettato costituzionale per cui l’accesso dovrebbe essere assicurato a tutti “a prescindere dalle condizioni socio economiche di partenza”. Chi potrà prepararsi ai test frequentando corsi ad hoc sarà sicuramente avvantaggiato rispetto a chi non potrà permetterselo, che dovrà subire doppiamente la lotteria dei test.

A fronte dell’imminente collasso del sistema universitario, sono necessari dunque finanziamenti massicci a lungo termine che garantiscano i fondi necessari per un’efficace orientamento in ingresso, una sostenibilità del piano di reclutamento da parte degli atenei e un intervento strategico sull’edilizia, atta a garantire gli spazi e le infrastrutture adeguate per poter sostenere una didattica di qualità ed innovativa anche ad un numero elevato di iscritti. Tutti questi interventi dovrebbero tradursi nel tempo in un aumento delle iscrizioni e quindi in un aumento del numero dei laureati, coefficienti necessari per la crescita culturale, sociale ed economica del Paese.


Nella foto di copertina: Hamilton Dollaku,coordinatore di Udu Firenze Sinistra Universitaria

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