Matteo Renzi

Renzi e l’arte delle tre carte

Quando ero un giovane militante di sinistra, avevo un problema personale con una pratica diffusa e ripetitiva, un vero e proprio incubo: l’autocritica! Che si vincessero o perdessero elezioni, amministrative, politiche o anche nelle scuole o nelle università; che non si fosse stati in grado di contrastare adeguatamente norme di legge per noi lesive o limitatrici di qualche diritto, l’esito finale era sempre quello: una sorta di seduta collettiva di autoanalisi politica per capire perché, se ad esempio si era vinto, la vittoria non fosse stata uniforme. Non parliamo delle sconfitte, poi. L’autocritica rischiava di sfociare in autoflagellazione.

Consideravo tutto ciò inaccettabile. Complici le granitiche certezze che la giovane età garantisce, ritenevo di essere sempre e comunque dalla parte del giusto. Di essere testimone e protagonista di una storia che, inevitabilmente, avrebbe prodotto risultati positivi per il Paese se solo gli altri, quelli che non ci votavano, avessero avuto cieca e fideistica fiducia in noi. L’età (e proprio la storia), oltre che l’ipertensione e qualche debolezza prostatica, ha portato con sé la consapevolezza che quelle certezze non erano poi tanto solide. Una sorta di House of cards, un castello di carte crollato, che nemmeno le numerose autocritiche hanno impedito crollasse.

Ma ho capito un’altra cosa: ero avanti con i tempi, troppo avanti. Lo posizioni che sostenevo allora erano un esercizio di storytelling non compreso. Insomma, è politicamente corretto che faccia coming out: ero l’archetipo del renzismo! E’ deve essere questo il motivo per cui, giornalmente seguo le enews di Matteo sul suo blog. Ed è un tuffo entusiasmante nel passato. Senza autocritica, però. L’Italia cresce meno di tutti gli altri Paesi dell’Europa comunitaria? Dettagli. Siamo al più 1% e solo questo conta. Si può fare meglio? Certo, abbassando le tasse e riducendo la burocrazia. No, non è Silvio Berlusconi (intervista a Il Giornale del 7 aprile e, comunque, stesso brand degli ultimi 25 anni), è Renzi. Dire a chi e come abbassare le tasse, quali priorità adottare (lavoro o impresa?), come garantire comunque l’universalità dei servizi essenziali (vuoi vedere che ha ragione Rossi sul disegno mascherato di privatizzazione della sanità?) in presenza di un generalizzato minor carico fiscale, metterebbe probabilmente a rischio il consenso di quell’elettorato che si insegue come base del costituendo Partito della Nazione. Però, concede, l’Italia nonostante i mille giorni di un Governo che non ha precedenti per numero riforme adottate (Giorgio Amendola, noto riformista, ammoniva che le riforme vanno valutate per la qualità, per i benefici che oggettivamente portano al Paese, non per la quantità), segna ancora il passo. Il motivo è prontamente individuato: è banalmente una conseguenza del no al referendum. E’ il “popolo bue” la causa delle italiche difficoltà.
I numeri forniti dall’ISTAT sugli effetti del Jobs Act? Penose bugie. E’ il blog, il suo blog, il solo dispensatore di verità. Con buona pace delle critiche, feroci, a Grillo.

Non parliamo poi delle proposte di riforma elettorale. “Purtroppo il PD può farci ben poco perché è minoranza (in commissione n.d.r.). Vediamo cosa proporranno loro e se finalmente ci spiegheranno a cosa sono favorevoli”. Cari politici da e della Prima Repubblica, imparate. Imparate l’arte delle tre carte applicate alla politica. Il Partito di maggioranza relativa che affossa il suo candidato presidente in Commissione Affari Costituzionali e, tattica magistrale, attribuisce la responsabilità dell’inerzia a chi (Art. 1 tra questi) una proposta di legge elettorale l’ha depositata e chiede sia discussa.

Naturalmente non troverete traccia, nel blog, della manovra correttiva sui conti di 3,4 miliardi di euro e del perché si è costretti a farla, per responsabilità di chi. Naturalmente non una parola sul fatto che alcuni spezzoni della “Buona Scuola”, il progetto “Zero-Sei”, parte grazie ad un ritrovato confronto con le parti sociali.

Caro Matteo, non hai vissuto per questioni meramente anagrafiche le stagioni dell’autocritica. Non erano poi tanto male. Era lo sforzo di connettersi, quando non c’era connessione digitale, con il Paese quando la connessione veniva meno. L’arte del raccontare storie impiegata come strategia di comunicazione persuasiva, in politica non sempre funziona. Perché dimentichi che il tuo House of cards è già venuto giù. E’ politicamente intelligente e vincente riproporlo senza alcuna correzione?

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