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La classe operaria (muore e) va in paradiso

Fu proprio un grave infortunio sul luogo di lavoro a rendere cosciente l’operaio Lulù, uno straordinario Gian Maria Volontè, che le lotte sindacali per migliorare le condizioni di sicurezza sul lavoro non erano frutto di un pregiudizio ideologico nei confronti del datore di lavoro, che lo indicava come esempio agli altri operai facendone una sorta di Stakanov della Brianza, ma una impellente e tragica necessità. Stiamo parlando, come è ovvio, del magnifico film di Elio Petri del 1971: “La classe operaia va in paradiso”.

Erano anni di dure lotte sindacali che con la parola d’ordine “la salute non si monetizza” chiedevano l’applicazione e il rispetto di norme in materia di sicurezza e di igiene nei posti di lavoro già approvate da diversi anni: il DPR 547/55 e il DPR 303/56.
Erano gli anni che precedettero il “miracolo economico”, anni caratterizzati da enormi flussi migratori interni, si svuotavano le zone rurali del Sud verso la speranza di un lavoro e di un futuro in aree del nord Italia, in particolare nel cosiddetto “triangolo industriale”: Milano, Torino, Genova.
Le attività economiche trainanti erano quella manifatturiera, in particolare metalmeccanica, e l’edilizia (perché bisognava pur dare un tetto ai milioni di terroni giunti in quelle città).
Ed era proprio nell’industria e nei cantieri edili che allora, come ora, si moriva.

I dati forniti dall’INAIL sono a dir poco raccapriccianti: 225 morti dall’inizio dell’anno. Nel 2017 sono state registrate 1029 vittime e 27 mila infortuni con invalidità permanente.
Perché si muore così tanto? Dove e come è necessario intervenire?
Sgombriamo subito il campo da una tentazione tutta italiota che spesso vede nella produzione legislativa l’anello debole della catena: nel nostro Paese non solo le leggi ci sono e sono più che sufficienti ma sono, a livello qualitativo, tra le migliori, se non le migliori in senso assoluto, in Europa e nel mondo. Al netto di qualche aberrazione logica e tecnica a cui si accennerà in seguito.

Se il profitto a tutti i costi, e costi quel che costi, non fosse stato pressoché l’unico principio che abbia guidato il capitalismo dalla sua nascita, basterebbe adempiere semplicemente al precetto dell’art. 2087 del Codice Civile: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Bello, no? Il problema è che, come tutte le norme del Codice Civile manca di una forza cogente adeguata, direbbero i giuristi raffinati. Noi che raffinati non lo siamo, né come uomini e ancor meno come giuristi, diciamo molto più prosaicamente che al mancato rispetto di quell’articolo manca una sanzione, una pena. Occorreva altro, anche perché nel frattempo l’integrità morale e fisica dei lavoratori erano divenuti beni costituzionalmente tutelati ( art. 37 e 41 della Costituzione). Quindi, le prime (e ottime) norme furono quelle sopra ricordate. Oltre ad una serie di indicazioni tecniche vincolanti, atte appunto a garantire sicurezza e salute dei lavoratori, vi era fissato un obbligo di grande portata pratica: l’assoluta responsabilizzazione di datori di lavoro e dirigenti (questi ultimi non necessariamente tali in senso tecnico-contrattuale, ma come coloro che effettivamente avevano una qualche responsabilità di direzione anche non generale). L’art. 4 di entrambi i Decreti prevedeva che il datore di lavoro era tenuto a “disporre ed esigere” il rispetto delle norme di sicurezza da parte dei lavoratori. Non vi era, in tale previsione, alcuna influenza terzinternazionalista ad opera di sovversivi comunisti infiltrati fraudolentemente in qualche Ministero. Era la semplice conseguenza dell’organizzazione dei fattori della produzione e la sicurezza doveva naturalmente far parte di essi dal momento in cui l’attività stessa partiva. In sostanza, questo il ragionamento che la giurisprudenza espose nel motivare le condanne a carico dei datori di lavoro, così come è giusto esigere determinati comportamenti lavorativi che non pregiudichino in alcun modo la produzione (se sei un lavativo, ti mando a casa ed è legittima causa di licenziamento), altrettanto lo deve essere quando si parla di dispositivi di protezione, siano essi individuali e personali che attinenti un qualsiasi macchinario o luogo di lavoro. Semplice e chiaro.

Certo, dalla metà degli anni ’50 il trend non si invertì immediatamente. L’indennizzo, per lungo tempo accettato di fatto anche dai sindacati, fu preferito alla prevenzione. Solo dalla fine degli anni ’60, con le lotte sindacali a cui si accennava, e sino alla metà degli anni ’80 infortuni e morti iniziarono lentamente, ma costantemente, a diminuire. Succede che poi, e siamo intorno al 1985/86, il fenomeno torna a farsi allarmante. Erano gli anni della “Milano da bere”, del debito pubblico fuori controllo che finanziava la crescita del Paese. Aumentano produzione industriale e, nominalmente, investimenti pubblici ma l’occupazione non aumenta in misura proporzionale. Infatti gli occupati sono stabili ma aumentano, e moltissimo, le ore lavorate. E’ naturale dedurne che se lavoro molte ore di più, soprattutto in determinate attività, la stanchezza fisica ti espone a maggiori rischi. Si aggiunga che nel frattempo si erano sviluppate, dagli anni ’50, altre forme di attività che pur se non immediatamente pericolose come quelle affrontate al tempo, un qualche rischio pur sempre lo presentavano. Valga per tutti, ad esempio, la raccolta dei rifiuti che non si svolgeva più con carretto, paletta e ramazza , tipo netturbini in Piazza Duomo come nella scena finale del film “Miracolo a Milano”, ma in maniera assai più complessa e con maggiori rischi. Ma c’è un ultimo fattore, forse quello più determinante ed è il combinato disposto, nelle gare d’appalto, del prezzo più basso e della possibilità, per le imprese aggiudicatarie, di ricorrere al subappalto. In pratica, nonostante i costi della sicurezza non possono essere soggetti a ribasso, questa catena a due anelli trasferisce la responsabilità sul subappaltatore che per ricavare comunque un margine di guadagno, è tendenzialmente orientato non solo a “risparmiare” sulla sicurezza ma ad assumere manodopera a nero. E siamo ai giorni nostri dove, nonostante il D. Lgs. 626/94 e il D. Lgs. 81/08 (Testo unico che ha assorbito la – quasi – totalità delle norme in materia) abbiano tentato di responsabilizzare senza alcuna differenza tanto le società appaltanti, quanto quelle appaltatrici che subappaltatrici, di coinvolgere i lavoratori stessi nella filiera decisionale circa le misure di sicurezza, i risultati con tutta evidenza non sono quelli sperati.

Anche il legislatore ci ha messo del suo. Laddove, infatti, imponeva al datore di lavoro di esigere determinati comportamenti, la nuova formulazione degli obblighi prevista da Decreto 81 si limita alla previsione che lo stesso soggetto debba “richiedere” il rispetto delle misure di sicurezza adottata. E’ evidente la differenza non solo terminologica, ma di portato giuridico dei due verbi. Il richiedere implica meno responsabilità dell’esigere, nel caso i dipendenti disattendessero le istruzioni ricevute.
Ma il vero problema è ancora a monte e implica due aspetti su cui intervenire con urgenza.
Il primo è, lo si ricordava appena sopra, quello di regolare in maniera molto stringente le norme sugli appalti eliminando, e limitandolo solo a casi specifici, la precisione del “minor prezzo” e, comunque, vietando il subappalto in questi casi.
In secondo luogo, a fronte di una notevole quantità di enti adibiti al controllo del rispetto delle norme (ASL, Ispettorato del Lavoro, ISPSELS, Vigili del Fuoco, ecc.), occorrerebbe investire massicciamente sia sulla formazione che sul numero di dipendenti da assumere ed adibire a tali attività.
La salute dei lavoratori è, lo ribadiamo, un bene costituzionalmente tutelato. Non sarebbe male che per una forza politica che già nella sua “ragione sociale” si richiama alla Costituzione, questo non diventi un punto di forza del suo programma.

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