In questo intervento vorrei tornare a mettere in rilievo lo stretto rapporto che esiste tra la miseria e il basso livello culturale. Un dato che è noto da tempo. Quando in Lettera a una professoressa Don Milani fa dire ad un suo allievo “La scuola è meglio della merda” (eravamo alla metà degli anni sessanta), esprime in sostanza un concetto che animerà le lotte studentesche per il diritto allo studio, lotte spesso ridotte al ridicolo stereotipo del “Vogliamo il 6 garantito”. Invece si trattava di ribadire che in quel “anche l’operaio vuole il figlio dottore” della canzone Contessa era sottintesa l’idea che la crescita culturale potesse essere un modo di superare una società chiusa in classi dove se nascevi operaio dovevi fare l’operaio, contadino il contadino, medico il medico e così via. L’idea che la scuola, la conoscenza servisse a capire il mondo per cambiarlo.

L’indagine Istat sulla povertà in Italia ha messo in evidenza che nel 2017 si stimano in povertà assoluta 1 milione e 778mila famiglie residenti per 5 milioni e 58mila individui; rispetto al 2016 la povertà assoluta cresce in termini sia di famiglie sia di individui. Nel 2015 risultavano 1 milione 582 mila famiglie povere (il 6,1% delle famiglie) per un totale di 4 milioni 598 mila persone (il 7,6% della popolazione)
Vale la pena di riportare le definizione che l’Istat da dei due tipi di povertà

La soglia di povertà assoluta rappresenta la spesa minima necessaria per acquisire i beni e servizi inseriti nel paniere di povertà assoluta. La soglia di povertà assoluta varia, per costruzione, in base alla dimensione della famiglia, alla sua composizione per età, alla ripartizione geografica e alla dimensione del comune di residenza. Il Paniere di povertà assoluta rappresenta l’insieme dei beni e servizi che, nel contesto italiano, vengono considerati essenziali per una determinata famiglia per conseguire uno standard di vita minimamente accettabile .

Soglia di povertà relativa: per una famiglia di due componenti è pari alla spesa media per persona nel Paese (ovvero alla spesa pro-capite e si ottiene dividendo la spesa totale per consumi delle famiglie per il numero totale dei componenti). Nel 2017 questa spesa è risultata pari a 1.085,22 euro mensili.

Ma entriamo nel merito. Chi sono i poveri?

Se guardiamo i dati della tabella che segue emergono alcuni elementi significativi. Intanto la povertà relativa colpisce persone con bassa scolarizzazione: chi non ha titolo di studio, licenza elementare e licenza media rappresenta più di 5 volte chi ha un diploma o oltre (rapporto molto più alto di quello relativo alle stesse categorie di scolarizzazione).
La quota percentuale più elevata è quella di chi è in cerca di occupazione, tra i non occupati e lavoratori indipendenti (esclusi imprenditori e professionisti) e subito dopo dagli Occupati, con il 10,5%. Ma in questo dato è rilevante il peso degli operai (19,5%) contro il 3,4% dei dirigenti, quadri e impiegati.


Fonte: Istat, Rapporto sulla povertà, 2018

Se, infine, guardiamo la serie storica possiamo osservare una crescita costante tanto della povertà assoluta che della povertà relativa che è un segnale crescente del malessere del paese, nonostante quello che si dice sul superamento della crisi.


Fonte: elaborazione su Istat, Rapporto sulla povertà

I dati sulla povertà operaia confermano, se mai ce ne fosse bisogno, il dramma prodotto dalla precarizzazione del lavoro sul quale sono state determinanti le scelte degli ultimi governi e per le quali non sembrano sufficienti le timide iniziative dell’attuale Ministro del lavoro.

Vediamo ora i dati sulla non partecipazione alla vita culturale prendendo a riferimento l’ultimo dato disponibile di Istat, perché il deterioramento della vita culturale rende difficile migliorare le condizioni di vita degli uomini.
In Italia, il 18,6 per cento della popolazione non svolge nessuna attività culturale, per quanto semplice e occasionale, dato pressoché invariato rispetto al 2015. Il fenomeno interessa in particolare gli over sessanta, dunque il vasto popolo dei pensionati. Il che prova come la scelta di abolire la gratuità per gli over 65 nei musei che sono i beni meno frequentati dagli italiani. Infatti, musei e mostre sono disertati dal 67,0 per cento degli italiani (e dal 77,7 per cento dei residenti nelle regioni del Sud). La disaffezione si diffonde a partire dai 20 anni, e se raggiunge il massimo fra gli ultrasettantacinquenni (86,9 per cento), siano essi donne o uomini.

L’assenza di pratica culturale varia considerevolmente, sia per tipo di attività, sia per genere, età, regione e tipo di comune di residenza dei cittadini.
Nel Sud, la percentuale di coloro che dichiarano di non aver mai visitato musei, mostre, siti archeologici o monumenti, di non aver letto il giornale nemmeno una volta a settimana, né un solo libro in un anno, di non essere andati mai al cinema, al teatro, a un concerto, a uno spettacolo sportivo, né a ballare, è più alta rispetto alle altre ripartizioni: 28,6 per cento. Nel nord-est, invece, il livello dei non partecipanti è il più basso: 12,5 per cento. La non partecipazione totale è particolarmente elevata (23,7 per cento) tra coloro che risiedono nei comuni con meno di 2 mila abitanti, anche per evidenti motivi di minore accesso all’offerta.

I concerti di musica classica sono spettacoli non goduti, nel 2016, dall’89,7 per cento degli italiani. Per gli altri concerti, la quota nazionale dei non partecipanti si attesta sul 77,2 per cento, ma al Sud e nelle Isole raggiunge quasi l’80 per cento. Quasi l’80 per cento degli italiani non sono mai stati a teatro e nei piccoli comuni (fino a 2 mila abitanti) la percentuale di coloro che non frequentano questo tipo di spettacoli sale all’86,2 per cento. Il 46,1 per cento degli italiani non sono mai andati al cinema nel corso dell’anno, la quota sale al 47,7 per cento tra le femmine e scende a 44,5 per cento tra gli uomini.
Quasi la metà degli italiani, il 54,7 per cento, nel 2016 non ha mai letto un quotidiano nell’arco di una settimana. I non lettori si concentrano fra gli abitanti del Sud (65,2 per cento), tra i bambini, gli adolescenti e i giovani fino a 19 anni. Le donne che non hanno mai aperto un quotidiano sono più degli uomini (59,4 contro 49,8 per cento). Quanto ai libri, quasi 6 italiani su 10 non ne hanno letto nemmeno uno in dodici mesi. Se si considera il genere, mentre non legge poco più della metà delle donne, i maschi non lettori totali sono ben il 64,5 per cento. Tra i residenti nelle regioni del Nord-est la percentuale dei non lettori di libri è la più bassa: 49,8 per cento, mentre al Sud raggiunge il 70,7 per cento.

Ancora più drammatica la situazione scolastica, non solo per il basso numero di laureati (tra i più bassi in Europa) ma anche per la generale riduzione della scolarità e la crescita dell’abbandono scolastico. Il numero degli adulti tra i 14 e i 39 anni che hanno conseguito un titolo di studio diminuisce in modo significativo tra il 2010 e il 2017 e il fenomeno interessa in modo marcato il Mezzogiorno.
Eurostat ha evidenziato che più è basso il livello di istruzione, più è alto il rischio povertà. E viceversa. Chi ha la terza media registra un tasso di deprivazione sociale e materiale del 24,3 per cento (25,3% nell’intera Unione) che si riduce al 12% al conseguimento del diploma e raggiunge il 7% per i laureati.
E’ noto da sempre il legame tra povertà, disagio sociale e livelli di istruzione e cultura, ma nell’ultimo decennio questo fenomeno ha assunto una dimensione che ci riporta indietro di molti anni.

La diseguaglianza economica aumenta perché si assiste ad un crescere della povertà per gli effetti delle scelte di questi anni, colpisce i ceti medi, la classe operaia e i giovani. Le scelte che il governo attuale vuole proseguire con provvedimenti che favoriscono la diseguaglianza come la flat tax che riduce le tasse ai più ricchi restituendo le briciole, e a volte neanche quelle, ai più poveri.
Se non si sostiene la buona occupazione, il lavoro esistente e non se ne crea di nuovo, rimuovendo tutto ciò che favorisce la precarietà del lavoro, il dramma della povertà sarà destinato ad aggravarsi.
Nello stesso tempo, anni di tagli alla cultura e all’istruzione (dalla scuola dell’obbligo, all’università e alla ricerca hanno impoverito il livello culturale del paese e soprattutto delle classi meno agiate.
Si parla di investimenti sulle infrastrutture, ma penso che anche la formazione nella scuola e oltre la scuola sia una infrastruttura, quella che aiuta la mente dell’uomo ad aprirsi, a riflettere e comprendere. Bisogna riaprire un ragionamento serio sull’educazione permanente. Il deficit culturale del paese è un tema che dovrebbe preoccupare la sinistra. Direi di più: il più alto degli investimenti produttivi dovrebbe interessare la formazione. Le due povertà, econimica e culturale, vanno combattute insieme.

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