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Le sofferenze dalla parte del debitore, un prossimo dramma sociale

Unicredit vende 17,7 miliardi di sofferenze, Banco BPM ha avuto di recente un grosso rialzo per l’annuncio di nuova cessione di 2 miliardi di sofferenze. Dopo che per mesi si è parlato della crisi del sistema bancario italiano, ora – dopo la “soluzione” delle più importanti (MPS e le due banche venete) – il discorso si sposta ai presunti vantaggi per le banche della cessione di tali crediti. Non è esagerato dire che, per la loro entità (200 miliardi lordi di sofferenze e 350, aggiungendo i crediti scaduti e sconfinanti nonché gli incagliati) i crediti deteriorati italiani rappresentano per l’Eurozona un problema molto grave. Ciò in quanto in Italia è allocata la maggior parte dei crediti cattivi.

Uno stock pesante per il sistema finanziario e produttivo, poiché per quattro quinti dell’importo (non del numero) le sofferenze provengono dalle imprese. Queste sono state causate da cattiva gestione di banche e imprese ma, soprattutto, dalla lunga recessione economica. Il tutto aggravato da una legislazione e da un sistema giudiziario che, di fatto, ostacolano le banche nel recupero.

Le cessioni massive all’esterno di tali crediti crescono progressivamente dal 2016, facendo calare la loro consistenza: al 31 marzo per la media dei gruppi bancari più grandi l’incidenza sul totale prestiti, al netto delle svalutazioni, è scesa al 9,2%. Inoltre, grazie anche alla ripresa economica in atto, i nuovi “deteriorati” sono tornati ai livelli precedenti la crisi (2,4% del totale crediti nel 1° trimestre 2017); le svalutazioni sono salite al 53%, a fronte del 45% dell’analoga media europea. Con le cessioni in corso, tra un anno, la loro incidenza potrà scendere sotto l’8%.

Per facilitare tali vendite, sono state introdotte importanti novità, che semplificano le procedure, derogando anche agli obblighi di notifica al debitore previsti dal codice civile.
Con le cessioni, in gran parte a gruppi stranieri, le società di recupero crediti aggrediranno famiglie e imprese per esigere quanto dovuto per sofferenze, spesso cedute a meno del 20% del debito residuo. E così, centinaia di migliaia di famiglie perderanno più velocemente la casa, tante migliaia di imprese chiuderanno prima e i loro dipendenti perderanno prima il lavoro. Si tratta dell’altra faccia della medaglia: le sofferenze viste dalla parte del debitore; un prossimo dramma sociale.

Le sofferenze nette sono attorno a 76 miliardi e le banche hanno già messo a bilancio come perdita la differenza rispetto ai 200 miliardi lordi: vendendole al 20% o meno contabilizzeranno altre perdite. Ma per il debitore e per chi li compra quello che conta è il lordo. Acquistando il credito, le società specializzate nel recupero chiederanno al debitore il 100%.
Le sole banche “salvate” anche con denaro pubblico hanno ceduto oltre 50 miliardi di sofferenze lorde. Tra le banche meno rischiose, Unicredit, come detto, ha venduto i suoi 17 miliardi addirittura al 13%, cioè a circa 2,2 miliardi, cedendo a Fortress (la compratrice) la sua piattaforma per la gestione dei crediti deteriorati, oggi DoBank spa, non a caso protagonista di un boom dopo la quotazione in borsa. Ciò a riprova che quello delle sofferenze è un gigantesco business, ma solo per chi le acquista. DoBank, come le altre società di recupero, chiederà ai debitori insolventi non 2,2 ma 17 miliardi, ovviamente senza curarsi degli aspetti sociali. “Business is business”.

Le banche recupereranno dalla cessione, quando va bene, il 20% delle sofferenze ma il debitore sarà sempre impegnato a pagare il 100%; sarà inseguito per tutta la vita e nel frattempo bandito dal mondo degli affari non potendo più avere credito e neanche operare tramite il canale bancario.
A fronte della sciagura (in parte meritata, perché onorare i debiti è un principio base dell’economia di mercato) di centinaia di migliaia di persone, i profitti “veri” andranno alle società proprietarie di tali crediti, che daranno lavoro a un esercito di professionisti e di operatori del recupero.
Tra i debitori ci sono aziende ancora faticosamente in vita, che non avranno scampo.

Per i controllori del credito, i vertici bancari e i media questo è il “mercato dei crediti deteriorati”.
Un lettore dotato di senso pratico potrebbe domandarsi: perché cedere questi crediti alla metà o meno del loro valore reale, arricchendo società e fondi esteri che si sono catapultati nel nostro ricco mercato? Non sarebbe meglio che fossero le banche italiane – magari attraverso società proprie alimentate con i loro esuberi di personale – ad occuparsene?
Il motivo reale sta nelle prescrizioni – almeno in questo caso poco comprensibili – della nuova Vigilanza bancaria europea, che privilegiando “il certo per l’incerto”, impone alle nostre banche di liberarsi di tali crediti al prezzo di un mercato dove i venditori sono tanti ed i compratori pochi. In ciò, finora contrastati con scarso successo dalle più recenti posizioni della Banca d’Italia e dell’Associazione bancaria, che spingono invece per mantenere detti crediti in bilancio, opportunamente svalutati, evitando di arricchire i colossi del settore.

Anche per il debitore forse potrebbe cambiare qualcosa. Rendendo, infatti, più agevoli gli accordi transattivi tra le parti (e magari consentendo a chi chiude in tal modo la partita di rientrare nel circuito bancario) i guadagni si ripartirebbero tra banche e debitori insolventi.
Per ora nessuno si è ancora accorto che chi ha acquistato a prezzi stracciati le sofferenze si sta affidando a esperti del recupero italiani, sempre i soliti specialisti, spesso dai modi non propriamente gentili.
Anche questo problema dovrebbe entrare nell’agenda di una buona politica.

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