Ne stiamo leggendo e sentendo veramente tante, forse pure troppe, ma una vera e propria analisi della sconfitta nessuno la sta facendo, e questo è grave. Eppure i primi dati parlano già chiaro: affluenza record in controtendenza con quella delle regionali, comunali e delle più lontane elezioni europee. Cosa ha spinto gli italiani, che negli ultimi mesi sembravano assopiti e stanchi dei battibecchi e della politica da stadio, a recarsi alle urne in massa su un Referendum che non ha brillato per la campagna elettorale ,e comunicativa ,delle diverse parti scese in campo a sostenere le ragioni del SI e del no? Questa è la domanda che bisogna porsi, magari domandandosi anche come mai questa volta l’alta affluenza è stata sinonimo della vittoria del NO  e quindi cosa non ha funzionato nella campagna referendaria.

Alle fine, probabilmente, rincorrere il populismo dipingendo i costi della politica come il male assoluto e ritornare agli anni di berlusconiana memoria in cui per vincere le elezioni si prometteva di costruire il Ponte di Messina non ha spostato molti voti  a favore del SI; ma anzi ha accentuato ancora di più il sentimento di distanza tra cittadini e classe politica. Un sentimento di distanza che è trasversale, dal Nord al Sud del Paese; dai lavoratori con i voucher ai dirigenti della Pubblica Amministrazione.

A pensare che il risultato ottenuto dal NO sia soltanto una somma algebrica dei partiti e di quella che è stata definitiva “ un’accozzaglia”, si fa un errore gravissimo. Il No, a causa della sua omogeneità , è un No contro l’élite; contro i “plasticoni” che vanno a fare le riunioni in sezione in giacca e cravatta; è un No contro una politica sempre più distante dalla realtà e della quotidianità della gente comune.  Ed è questo il sottile filo che unisce l’Italia con la Brexit, e che nei promessi mesi unirà altri paesi europei come Francia, Svezia e Germania.

Il sito Info Data ha messo a disposizione sul proprio sito una serie di infografiche che ci permettono di notare non solo la differenza di voto tra classi di età, di popolazioni delle stesse provincie, ma anche tra classi di reddito e soprattutto vedere quanto  a pesato  il problema della disoccupazione, specie quella giovanile. Partiamo dal rapporto giovani- anziani e prendiamo le due provincie con il Si e il No più alto, rispettivamente Bolzano e Foggia.

A Bolzano il Si vince di oltre il 63% e il rapporto tra giovane under 30 e anziano over 65 è di 1 a 1,3; a Foggia è di 1 a 1,27 (scarto millimetrico) e il No vince con oltre il 70% dei consensi; ma quello che fa la differenza tra le due provincie è non solo la differenza di reddito procapite medio ma anche la differenza dei tassi di disoccupazione. A Bolzano il reddito procapite medio è di 19.352 euro, a Foggia è di 11.794 euro;  una differenza immensa che evidenzia delle forte disuguaglianze sociali; se oltre a questo dato aggiungiamo anche quello sulla disoccupazione, allora il flusso di voti diventa chiarissimo e netto. A Bolzano la disoccupazione è pari al 3,62% e quella giovanile al 8,16% (dati molto bassi rispetto alla media del nostro Paese); a Foggia, invece, la disoccupazione è pari al 20,13% e quella giovanile è pari al 48,89%. 

Questi numeri ci permettono di capire come il voto del referendum non è stato un voto tra progressisti vs conservatori, tra sognatori vs gufi o tra colti vs ignoranti; ma è stato un voto sociale; un voto che trova le sue radici nelle profonde disuguaglianze economiche, sociali e delle opportunità che attraversano per lungo e largo la nostra penisola. Povertà, emarginazione, rabbia , carenza di opportunità e disuguaglianza hanno portato in massa la gente a votare per il NO. I partiti e i comitati per il No hanno fatto il loro, come quelli per il SI, ma il No è stato fortemente aiutato dalla disuguaglianze sociali ed economiche  diffuse nel Paese, facendo diventare il Referendum il megafono del dramma sociale ed economico vissuto nelle provincie italiane; tanto è vero che il SI vince solo in 12 provincie italiane e in 3 Regioni.

E allora basta, basta, con i retroscena da prima Repubblica; basta con i totonomi; basta con le gare per le poltrone o con le strategie di componente studiate a tavolino. Questa è l’ora  x del centrosinistra italiano, o si sveglia e ricostruisce un partito un “PD più aperto ai drammi della società, più forte, più organizzato e più radicato tra i ceti deboli, con un netto profilo di sinistra. Una sconfitta così forte richiede un ripensamento dell’intero asse strategico del Partito, che chiama in causa il Governo, il cui riformismo si è rivelato insufficiente e troppo debole. Il tempo e le sfide richiedono un PD diverso”, come dice Enrico Rossi; oppure la strada per la deriva nazional-populista filo conservatrice è aperta. Nelle stanze del Pd si preparano le tattiche per rimandare la Direzione nazionale di domani, con la paura che possa essere troppo presto per discutere; si mettono appunto strategie che permettano di mantenere tutti incollati alle sedie; si riuniscono i correntoni e i carrozzoni per costruire interventi mirati. Insomma si fa tutto quello che non si dovrebbe fare; ora al Partito Democratico serve una discussione chiara e pulita, anche passionale; non un freddo insieme di strategie di diverse componenti interne al PD unite dalla semplice voglia di prendersi più poltrone e visibilità possibile. Se vogliamo ripartire e ritrovare i nostri elettori, dobbiamo cambiare modo di fare politica e d’immaginare il Partito; dobbiamo trovare un modo di rientrare nelle sezioni ; dobbiamo cambiare la strategia del partito tornando a sinistra e dobbiamo tornare a parlare alle persone con umiltà e  con conoscendo i problemi che ci sono nella vita quotidiana di tutti. Se no, arriverà il giorno, in cui nemmeno a Bolzano o nel II Municipio di Roma ci voteranno più.

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