Poche ore fa, al TG3 Toscana, è andato in onda un servizio in cui si parlava dei profughi e richiedenti asilo ospitati ad Arezzo. Fra questi profughi, veniva riferito che si trovavano diverse persone provenienti dallo Yemen, “dove è in corso una guerra di cui si parla troppo poco”. Abbiamo pensato che è davvero una tragica e ironica sorte quella dei profughi yemeniti: fuggono da una guerra in cui la popolazione civile viene bombardata con ordigni venduti da una azienda italiana, la RWM Italia SpA, transitati da porti e aeroporti italiani (Cagliari), con l’autorizzazione del Governo italiano, al governo “amico” dell’Arabia Saudita (che – in coalizione con Emirati Arabi, Egitto, Kuwait, Qatar e Bahrain – ha mosso guerra allo Yemen senza alcuna legittimazione dal punto di vista del diritto internazionale).

Spediamo bombe e ci ritornano profughi: tutto molto lineare. Poi quei profughi troveranno una accoglienza decente da parte di quello stesso governo che ha contribuito al loro stato di profughi. E qualcun altro dirà: “aiutiamoli a casa loro!”, ma – in un senso terribile – lo abbiamo già fatto!
La RWM Italia SpA, naturalmente, impiega personale italiano e in una regione in affanno dal punto di vista occupazionale qual è la Sardegna, pare che non si possa porre il problema – etico, ma anche di politica internazionale e industriale – di fermare questa produzione e commercio di morte. Perché questo commercio ha fatto ricca la RWM Italia SpA: è tutto PIL che cola! Infatti, nell’ultima relazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri sul commercio degli armamenti per l’anno 2016 (obbligatoria ai sensi della L.185/1990), depositata in Parlamento il 26 aprile, si può verificare che RWM è salita al terzo posto per giro d’affari nel settore della difesa (con 45 nuove esportazioni autorizzate dal Ministero degli Esteri per un totale di 489,5 milioni di euro, 460 milioni in più dell’anno 2015). Ma il Governo italiano – non sappiamo se per pudore, vergogna o ignavia – non dice in quella relazione che le bombe la RWM le ha vendute all’Arabia Saudita. Noi crediamo perché è ben consapevole che tale transazione sarebbe in aperta violazione della legge n.185/1990 che all’art.1 recita: “L’esportazione, l’importazione e il transito di materiale di armamento … devono essere conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia. Tali operazioni vengono regolamentate dallo Stato secondo i principi della Costituzione repubblicana che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.

Ma, allora, come facciamo a sapere che quelle bombe usate dall’Arabia Saudita in Yemen le siano state vendute dalla RWM Italia SpA? Noi di Fondazione Finanza Etica, insieme a Rete Italiana per il Disarmo e alla ong tedesca Urgewald, abbiamo svolto una attività di azionariato critico presso la Rheinmetall AG, azienda tedesca fondata nel 1889, gruppo industriale leader nel settore della difesa e della mobilità sostenibile (prego notare l’astuzia: si fanno armi di morte, ma anche auto sostenibili!), con 23.000 addetti e un giro d’affari di 5,6 miliardi di euro. Rheinmetall controlla al 100% RWM Italia SpA.
L’azionariato critico, attraverso l’acquisto di un minimo stock di azioni e, dunque, l’esercizio dei diritti di ogni azionista di una certa azienda, ha come scopo è quello di sollecitare la riflessione degli amministratori e degli azionisti sugli impatti che le imprese quotate in borsa possono avere in campo ambientale e sociale e le conseguenze che ne possono derivare per i bilanci e la reputazione delle stesse imprese. Fondazione Finanza Etica dal 2007 è azionista critica delle imprese italiane Eni ed Enel e nel 2016 abbiamo iniziato a partecipare alle assemblee del produttore di armi italiano Leonardo-Finmeccanica, mentre dal 2017 abbiamo iniziato attività di azionariato critico su Acea SpA (la multiutility romana di servizi, in particolare acqua), Inditex (la multinazionale spagnola che detiene molti marchi nel settore della moda, fra cui Zara) e, appunto, Rheinmetall.
Proprio agendo i nostri diritti di azionisti, abbiamo potuto esaminare la Relazione Finanziaria di Rheinmetall per il 2016 che riporta un ordine “molto significativo” di “munizioni” per 411 milioni di euro da parte di un “cliente della regione MENA (Medio Oriente e Nord Africa)”. Ecco qua, dunque, svelato l’arcano che l’astuto governo italiano non ha voluto rivelare, come avrebbe dovuto ai sensi della L.185/1990. Nell’assemblea generale degli azionisti di Rheinmetall siamo intervenuti per chiedere per quale motivo la società avesse deciso di esportare le bombe in Arabia Saudita attraverso l’Italia e non, direttamente, dalla Germania. Abbiamo avanzato l’ipotesi che la società temesse che il governo tedesco non avrebbe fornito le necessarie autorizzazioni, anche perché Die Zeit del 30 aprile riportava la notizia secondo la quale l’Arabia Saudita non avrebbe più chiesto autorizzazioni alla Germania per l’importazione di armi per non creare imbarazzi al governo tedesco. In effetti, la Germania per i Sauditi è molto più importante rispetto all’Italia, sia dal punto di vista commerciale sia da quello politico e, dunque, temendo che l’opinione pubblica e (forse) la politica tedesche avrebbero reagito in modo molto negativo ad una vendita così ingente di armi per impiegarle in una guerra illegale e tremenda, gli emiri hanno preferito chiedere l’importazione delle bombe dall’Italia. In assemblea generale degli azionisti del 9 maggio i dirigenti di Rheinmetall hanno risposto alle nostre domande dicendo che i Sauditi avevano avanzato questa richiesta perché avevano richiesto e ottenuto le autorizzazioni dall’Italia. E’ il classico gioco dello scarica-barile: infatti, è ben difficile che l’Arabia Saudita (unico paese fra i non G7 che i nostri presidenti del consiglio Renzi e Gentiloni abbiano visitato in forma ufficiale) abbia richiesto questo tipo di triangolazione, senza che l’azienda Rheinmetall avesse concordato o quanto meno suggerito questa soluzione. Ma tant’è. Certamente il governo italiano non ne esce bene, avendo prima autorizzato una transazione di armi verso un paese in conflitto armato in contrasto con i principi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, poi avendo omesso nella Relazione al Parlamento ex L.185/1990 la destinazione di questa commessa e infine dichiarando in Parlamento che la transazione era del tutto regolare.

L’azionariato critico è uno strumento di partecipazione attiva dei cittadini organizzati nelle associazioni e ong per discutere sulle ricadute non economiche delle scelte delle grandi aziende. Spesso è anche un modo per richiamare il Governo a svolgere le funzioni di tutela degli interessi generali, dei principi costituzionali e della sostanza delle leggi. Ciò avviene quando il Governo svolge la funzione di regolatore in economia (come in questo caso), oppure quando esso è direttamente coinvolto nella gestione dell’azienda in quanto azionista di riferimento (come nei casi di Enel, Eni e Leonardo). A noi appare incredibile e incomprensibile che il Governo rinunci a svolgere questa sua fondamentale funzione (peraltro di rilievo costituzionale). Può, ad esempio, un Governo che detiene il pacchetto azionario di maggioranza in Eni tacere – in sede di assemblea generale di fronte alle domande degli azionisti critici – circa l’inchiesta ENI/Nigeria di corruzione internazionale per presunta tangente di 1 miliardo e 92 milioni di euro in cui sono coinvolti fra gli altri l’AD di ENI, Claudio Descalzi, Paolo Scaroni ed il faccendiere Luigi Bisignani? Noi pensiamo di no. Ma questa è un’altra storia, di cui torneremo fatalmente a parlare perché fra poco inizierà il processo e l’azionista di riferimento non potrà più far finta di niente.

Simone Siliani e Mauro Meggiolaro sono di Fondazione Finanza Etica

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