Ho ben vivo il ricordo del 1° maggio nella mia città, Cerignola. Parlo di ricordo perché della “Festa del Lavoro” della mia infanzia e della mia giovinezza poco, anzi, quasi nulla è rimasto. Sia nella forma che nella sostanza. Non erano le campane a svegliarci, ma il rumore delle motociclette a cui – era una tradizione che non mi sono mai spiegato – veniva tolto il silenziatore delle marmitte. Era tollerato, e non per ignavia di polizia o vigili urbani, ma era una tradizione che si rispettava; quello moto bardate tutte con qualcosa di rosso erano una componente della festa. Come i trattori, le centinaia di biciclette e, quando ancora c’erano, i carri trainati dai cavalli. Gli adulti con il garofano rosso d’ordinanza obbligatorio. Il corteo a cui partecipavano migliaia di donne uomini e bambini, con la banda in testa che alternava l’Inno dei lavoratori all’Internazionale (forzatura questa che non faceva storcere il naso a nessuno: i marcianti erano quasi tutti comunisti e qualche socialista) si cimentava in quella che era in realtà una vera e propria maratone. Attraversava la quasi totalità delle vie cittadine e tra le case a piano terreno (moltissime) si apriva ogni anno una vera e propria sfida sull’addobbo più bello. La figura centrale su cui costruirlo era, ovviamente, l’effige di Giuseppe Di Vittorio, il resto era lasciato alla fantasia di ognuno. L’unico serio e reale pericolo era rappresentato dal lancio dei confetti sui partecipanti al corteo. Centinaia di confetti che eri obbligato ad intercettare al volo, prima che raggiungessero la fronte o, peggio, l’occhio di qualcuno!

Era una gran festa in cui si festeggiava il lavoro per due motivi. Innanzitutto, un lavoro sempre più dignitoso e affrancato da qualsiasi forma di sfruttamento. Il caporalato nelle nostre campagne era stato sradicato. Non fu necessaria alcuna norma repressiva, bastò la politica, la sinistra, i sindacati: allargare i diritti a tutti coloro che prestavano le proprie braccia all’agricoltura. Per questo motivo, quando penso al “Decreto Martina” sull’argomento, penso che sì, è un provvedimento sacrosanto, ma da uomo di sinistra mi dovrebbe fare lo stesso effetto di una raccomandazione delll’Istituto Superiore della Sanità per la profilassi e cura del vaiolo! Ma si festeggiava anche il lavoro che c’era e quello che, si presumeva, ci sarebbe stato. Come si usa dire, “l’ascensore sociale” era in perfetta efficienza. I nostri padri erano pressoché certi che i loro sacrifici ci avrebbero garantito un futuro tranquillo. Oggi non ci svegliano più i motorini, le case a piano terreno sono abitate in gran parte da stranieri, spesso in condizioni igienico-sanitarie spaventose, che sono alla mercé dei caporali. L’ascensore sociale è guasto da anni e il lavoro, se hai la fortuna di averlo, necessita sempre di qualche aggettivo.

Dopo anni di silenziosa complicità, anche i giornali del gruppo De Benedetti si sono accorti che la stragrande maggioranza del lavoro offerto è di merda (basterebbe questo di aggettivo) e che l’obiettivo non può essere solo quello di creare lavoro, ma renderlo dignitoso. Con qualche straccio di diritto annesso. E’ una sensazione piacevole, per me e per gli altri scappati di casa, trovarsi in compagnia dei vari Lerner, Cacciari e Giannini, nel sostenere che occorre maggiore radicalità nelle scelte politiche. Che la progressiva precarizzazione del lavoro dipendente e la mancanza di tutele chiamano in causa anche scelte sciagurate dei governi ci centrosinistra.

Per anni ci hanno massacrato i maroni sulla nostra presunta idiosincrasia nei confronti di Renzi, non accorgendosi – nemmeno loro – che l’unica idiosincrasia che montava era quella degli elettori nei confronti di una sinistra insipida e inutile. Le vittorie dei socialisti finlandesi e spagnoli, con programmi assai poco liberali e liberisti, hanno dato uno scossone anche a Walter Veltroni. Tre anni fa, da politico, riteneva che la “Rivoluzione socialista” servisse a riempire un piccolo buco nelle librerie domestiche. Oggi, da regista, ritiene che sono i valori del socialismo l’unico argine e risposta alle derive sovraniste e fascistoidi in Europa e nel mondo. Sì, ci sentiamo meno soli ma ugualmente infelici. Per ritrovare serenità e sorriso occorrerebbe che questi temi non fossero abbandonati il 2 maggio. Occorrerebbe che sul salario minimo, sui diritti dei precari, sulla dignità del lavoro, si ricerchino il massimo delle convergenze possibili. E se dovessimo incontrare su questa strada Giggino Di Maio, non avremmo difficoltà a farcene una ragione.

Foto in evidenza: Primo Maggio a Cerignola, anni ’50

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