Pubblichiamo un intervento di Rosa Fioravante già apparso su Huffington Post:
La storia è nota e, come si dice in questi casi, “ha commosso il Web“: un quattordicenne è stato ritrovato morto nel Mediterraneo con la sua pagella cucita negli indumenti che indossava.
Proprio come le immagini strazianti del piccolo cadavere di Aylan Kurdi, ritrovato fra la risacca delle onde, e quelle di molti altri migranti, la storia del ragazzino con una pagella da studente modello sarà strumentalizzata dalla politica e poi dimenticata; forse da qualcuno, romanzata.
La sua morte, la sua esclusione da un consesso “civile” come dovrebbe essere il nostro, quello dell’Italia e dell’Europa, ci racconta però molto del grande inganno delle pagelle e della meritocrazia. Nella recente indagine di Openopolis sulla povertà educativa, si evidenzia molto bene come l’accesso all’istruzione, alla formazione di competenze e conoscenze sia infinitamente più difficile (in Italia!) per chi viene da una famiglia poco abbiente e da condizioni di contesto economicamente svantaggiate.
Il problema è noto: nel nostro Paese sempre più giovani sanno che per avere una chance nel mondo del lavoro devono seguire le tracce dei genitori, sfruttando il loro network di conoscenze e un inserimento “ex ante“. I figli dei laureati si laureano molto di più dei figli di chi ha famiglie con un livello di istruzione più basso.
Chi può permetterselo va a studiare nelle Università che danno maggiori opportunità occupazionali (tendenzialmente al Nord) e impiegano lunghi anni di stage, tirocini, accumulano titoli di master e diplomi internazionali per costruire un curriculum che già sanno non servirà a nulla nel suo merito, se non a occasionare incontri con persone influenti che possano inserire i ragazzi e le ragazze in un contesto lavorativo qualificato.
La nuova frontiera dello sfruttamento è parte di quasi tutte le biografie degli under 35 della penisola: tu lavori per noi gratis o quasi, noi ti diamo i contatti. Per tutti gli altri, per chi deve pagare autonomamente un affitto, per chi ha bisogno di una continuità salariale etc, a nulla valgono titolo di studio e mesi di approfondimento.
Per loro, a nulla vale essere “imprenditori di se stessi“: senza la giusta provenienza, non c’è merito che tenga. Nel mondo del lavoro a un certo punto e a vari gradi, tutti si rendono conto che è più sicuro e preferibile essere ubbidienti rispetto a essere bravi, che il cognome che si porta e le reti sociali che lo proteggono sono più importanti della capacità e del valore aggiunto che si crea.
Questo vale tanto che si tratti di lavori qualificati dove la retorica della perdita di diritti è giustificata dalla “realizzazione personale” che l’impiego darebbe al lavoratore, quanto per le mansioni dequalificate, dove la legge dell’ubbidienza è stata legalizzata dalla rimozione dell’art. 18 e delle tutele che impedivano i licenziamenti disciplinari fatti in modo arbitrario.
Non è forse questo il sistema che difendono quelli che credono di essere in competizione con “l’esercito di riserva” dei migranti? Non è forse questa la filosofia nella quale trincerarsi per non perdere anche quel poco che ancora si ha, dieci anni dopo lo scoppio di una crisi economica epocale che stanno pagando solo quelli che non la hanno causata?
Il sogno infranto di quella pagella è più tragico di ogni sogno infranto dei figli d’Italia, ma non è poi al fondo così diverso. Racconta di un sistema che funziona solo per i pochi, di un accesso ai diritti fondamentali e ad un ascensore sociale bloccati, racconta del mito della meritocrazia.
È un merito nascere in una parte del mondo non attraversata da guerre? È un merito nascere fra i paesi che, inquinando di più, hanno più contribuito al cambiamento climatico che desertifica e depreda risorse dalle altrui terre? È un merito nascere ricchi?
Se le pagelle contassero qualcosa avremmo accolto il ragazzino malese e avremmo costruito un mondo nel quale almeno provare a impegnarsi per migliorare la propria condizione. Invece viviamo in un sistema nel quale l’unica cosa per cui impegnarsi seriamente (e collettivamente) è la sua completa rivoluzione.
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Foto in evidenza: La vignetta di Makkok sulla tragica vicenda del 14enne morto in mare con la pagella cucita in tasca
La pagella in fondo al mare
Pubblichiamo un intervento di Rosa Fioravante già apparso su Huffington Post:
La storia è nota e, come si dice in questi casi, “ha commosso il Web“: un quattordicenne è stato ritrovato morto nel Mediterraneo con la sua pagella cucita negli indumenti che indossava.
Proprio come le immagini strazianti del piccolo cadavere di Aylan Kurdi, ritrovato fra la risacca delle onde, e quelle di molti altri migranti, la storia del ragazzino con una pagella da studente modello sarà strumentalizzata dalla politica e poi dimenticata; forse da qualcuno, romanzata.
La sua morte, la sua esclusione da un consesso “civile” come dovrebbe essere il nostro, quello dell’Italia e dell’Europa, ci racconta però molto del grande inganno delle pagelle e della meritocrazia. Nella recente indagine di Openopolis sulla povertà educativa, si evidenzia molto bene come l’accesso all’istruzione, alla formazione di competenze e conoscenze sia infinitamente più difficile (in Italia!) per chi viene da una famiglia poco abbiente e da condizioni di contesto economicamente svantaggiate.
Il problema è noto: nel nostro Paese sempre più giovani sanno che per avere una chance nel mondo del lavoro devono seguire le tracce dei genitori, sfruttando il loro network di conoscenze e un inserimento “ex ante“. I figli dei laureati si laureano molto di più dei figli di chi ha famiglie con un livello di istruzione più basso.
Chi può permetterselo va a studiare nelle Università che danno maggiori opportunità occupazionali (tendenzialmente al Nord) e impiegano lunghi anni di stage, tirocini, accumulano titoli di master e diplomi internazionali per costruire un curriculum che già sanno non servirà a nulla nel suo merito, se non a occasionare incontri con persone influenti che possano inserire i ragazzi e le ragazze in un contesto lavorativo qualificato.
La nuova frontiera dello sfruttamento è parte di quasi tutte le biografie degli under 35 della penisola: tu lavori per noi gratis o quasi, noi ti diamo i contatti. Per tutti gli altri, per chi deve pagare autonomamente un affitto, per chi ha bisogno di una continuità salariale etc, a nulla valgono titolo di studio e mesi di approfondimento.
Per loro, a nulla vale essere “imprenditori di se stessi“: senza la giusta provenienza, non c’è merito che tenga. Nel mondo del lavoro a un certo punto e a vari gradi, tutti si rendono conto che è più sicuro e preferibile essere ubbidienti rispetto a essere bravi, che il cognome che si porta e le reti sociali che lo proteggono sono più importanti della capacità e del valore aggiunto che si crea.
Questo vale tanto che si tratti di lavori qualificati dove la retorica della perdita di diritti è giustificata dalla “realizzazione personale” che l’impiego darebbe al lavoratore, quanto per le mansioni dequalificate, dove la legge dell’ubbidienza è stata legalizzata dalla rimozione dell’art. 18 e delle tutele che impedivano i licenziamenti disciplinari fatti in modo arbitrario.
Non è forse questo il sistema che difendono quelli che credono di essere in competizione con “l’esercito di riserva” dei migranti? Non è forse questa la filosofia nella quale trincerarsi per non perdere anche quel poco che ancora si ha, dieci anni dopo lo scoppio di una crisi economica epocale che stanno pagando solo quelli che non la hanno causata?
Il sogno infranto di quella pagella è più tragico di ogni sogno infranto dei figli d’Italia, ma non è poi al fondo così diverso. Racconta di un sistema che funziona solo per i pochi, di un accesso ai diritti fondamentali e ad un ascensore sociale bloccati, racconta del mito della meritocrazia.
È un merito nascere in una parte del mondo non attraversata da guerre? È un merito nascere fra i paesi che, inquinando di più, hanno più contribuito al cambiamento climatico che desertifica e depreda risorse dalle altrui terre? È un merito nascere ricchi?
Se le pagelle contassero qualcosa avremmo accolto il ragazzino malese e avremmo costruito un mondo nel quale almeno provare a impegnarsi per migliorare la propria condizione. Invece viviamo in un sistema nel quale l’unica cosa per cui impegnarsi seriamente (e collettivamente) è la sua completa rivoluzione.
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Foto in evidenza: La vignetta di Makkok sulla tragica vicenda del 14enne morto in mare con la pagella cucita in tasca
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Rosa Fioravante
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