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L’integrazione europea secondo Draghi

Pubblichiamo la traduzione, sintetizzata (curata da Enzo Umbrella) di un discorso tenuto da Mario Draghi a Berlino. Come Umbrella scrive nel commento, è in corso un grosso dibattito, con progetti in avanzata fase di elaborazione, volti ad intensificare la costruzione europea sul piano bancario, fiscale e della finanza, di cui poco si discute in Italia, a parte le idee, molto controverse, del prof. Paolo Savona, ministro per gli Affari Europei.

Mario Draghi, Hertie School of Governance, Berlino, 19/9/2018:

Oggi è vitale portare avanti il dibattito sull’integrazione europea perché stiamo affrontando sfide economiche e controversie politiche sul futuro dell’integrazione europea. Quindi è utile guardare all’evoluzione dell’integrazione europea negli anni ’80 e distillare le lezioni da trarre da essa.
La strategia che i padri fondatori hanno sviluppato si è basata su tre elementi: sbloccare il potenziale dell’integrazione europea concentrandolo su sfide comuni in cui l’UE poteva aiutare; riconoscere che l’integrazione in un’area crea interdipendenza con le altre; dotare l’UE di strumenti e istituzioni per gestire tale interdipendenza e assicurare stabilità e convergenza.
Questi tre elementi dovrebbero anche guidarci oggi nella progettazione e attuazione delle riforme dell’Unione economica e monetaria (UEM).

L’agenda del mercato unico. L’economia europea a metà degli anni ’80 stava emergendo da un decennio di recessione e di debole crescita. La disoccupazione passava dal 5,8% nel 1980 all’11,2% nel 1985. Il tasso di crescita potenziale dell’Europa scendeva dal 5% annuo negli anni ’70, al 2% circa l’anno nel decennio successivo.
Anche l’ambiente internazionale diventava meno accomodante. La politica estera ed economica americana stava cambiando rapidamente sotto la guida del presidente Reagan. Emergevano dispute commerciali e le importazioni americane coperte da dazi passava dall’8% nel 1975 al 21% nel 1984.
La fiducia nella creazione di un progetto europeo più profondo era bassa. Il processo di integrazione era bloccato e “l’Europa sembrava mancare di fiducia in se stessa“.
I leader europei di allora capirono che la bassa crescita era la sfida comune e che l’UE disponeva di un potente strumento per affrontarlo: il mercato comune. Hanno anche percepito che ogni ulteriore apertura degli scambi dovrebbe essere accompagnata da equità.
Stabilire un mercato unico significava rimuovere le barriere, le differenze nelle norme sulle licenze e negli standard tecnici, che limitavano il commercio e il flusso di capitali tra i paesi. E ciò richiedeva regole comuni da applicare da parte di un’autorità garante della concorrenza, in modo che tutte le parti del mercato fossero trattate equamente.

Ma perché il mercato unico sia sostenibile nel tempo, aprire mercati e applicare le regole non è bastato. L’UE andava dotata di strumenti e istituzioni necessari per garantire stabilità e convergenza.
Innanzitutto né i tassi di cambio fissi né quelli flessibili sono stati considerati un’opzione sostenibile. A tassi di cambio flessibili, i paesi che perdono quote di mercato si impegnerebbero in svalutazioni competitive, con ritorsioni degli altri. E i regimi di cambio fissi si sono dimostrati vulnerabili. Pertanto, l’integrazione andava completata con la creazione dell’euro e dell’Eurosistema.
In secondo luogo, era chiaro che l’apertura dei mercati a volte penalizzava i produttori locali, oltre a creare possibilità per le industrie di migrare verso le regioni più competitive.
La concorrenza è stata accompagnata da protezioni per i produttori locali, come le protezioni geografiche per alimenti specifici. E c’è stato sia un aumento delle dimensioni del bilancio dell’UE sia un notevole riequilibrio della spesa nei diversi settori e verso la convergenza e la coesione.
In particolare, sono stati stanziati fondi per promuovere l’adeguamento nelle regioni meno sviluppate o che soffrono per la liberalizzazione degli scambi. Nel 1992, la dotazione di bilancio per i fondi strutturali è passata dal 17% della spesa dell’UE a oltre il 25%. Nel complesso, una strategia lungimirante che in generale, ha funzionato.
Nel 1988, la crescita degli scambi intra-UE aveva già riguadagnato il livello dei primi anni ’70 e nel 1990 il tasso di crescita del PIL potenziale era aumentato al 3% l’anno. Grazie all’integrazione, dopo dieci anni di adesione all’UE, il reddito pro capite nel singolo paesi supera in media del 10% quello che sarebbe se fosse rimasto fuori dall’Unione.
Così, il mercato unico è diventato sempre più popolare: la libera circolazione di beni, persone e servizi è tra i risultati più positivi dell’UE, accanto alla pace tra gli Stati membri.
Le aree in cui l’UEM ha sottoperformato negli ultimi decenni sono quelle lasciate incompiute negli anni ’80 e ’90, come i quadri per le politiche fiscali e la vigilanza bancaria. Sappiamo che queste lacune hanno contribuito alla formazione di squilibri con un ruolo nella crisi dell’area euro. Non è stato il mercato o la moneta unica a produrre questa situazione, ma l’incapacità di proseguire con le formule che avevano funzionato.

Il ruolo dell’Europa oggi. Le sfide che affrontiamo oggi in Europa sono per molti aspetti simili a quelle dell’era di Delors. Stiamo uscendo da una profonda recessione che lascia cicatrici durature sull’economia e sulla società. L’ambiente internazionale vive una crescente incertezza. E alcuni si chiedono se l’integrazione europea rimanga la risposta ai nostri problemi comuni. La crescita potenziale ha subito un rallentamento rispetto ad altre economie avanzate e si prevede che rimarrà debole per qualche tempo. Proprio come negli anni ’80, molte sfide hanno alla base questa debole crescita che aggrava le pressioni sulle finanze pubbliche, sulla disoccupazione specie giovanile e non qualificata; crea la falsa percezione tra il pubblico che il protezionismo sia una soluzione.
Quindi l’Europa può fornire nuovamente le chiavi per cambiare la nostra traiettoria di crescita? La risposta è sì, se trasferiamo in toto la strategia che ha funzionato nel passato. Cioè, una chiara attenzione alle aree in cui l’Europa può aggiungere valore e un rigore nella coerenza tra le politiche.
La maggior parte dei paesi dell’Eurozona ha società che invecchiano, il che significa che l’innalzamento degli standard di vita dipenderà sempre più dalla crescita della produttività che è in stallo da tempo. Il mercato unico è uno strumento potente per far aumentare la produttività.
La crescita della produttività avviene attraverso l’innovazione e la diffusione di nuove tecnologie. Abbiamo imprese innovative che competono sul piano internazionale. Ma le innovazioni stentano a diffondersi, il che pesa sulla produttività in generale. Il 10% superiore delle imprese è tre volte più produttivo delle imprese del 10% inferiore. I servizi sono il settore con il divario più ampio.
Il progresso dell’agenda del mercato unico può aiutare in due modi. Innanzitutto, l’apertura al commercio è un fattore chiave per una più rapida diffusione della tecnologia. Il completamento del mercato unico dei servizi può aumentare la produttività, aumentando gli scambi di servizi, che rappresentano oltre il 70% del PIL dell’UE, ma solo il 20% viene scambiato attraverso i confini. Il secondo elemento è la costruzione di un vero mercato unico dei capitali. I mercati finanziari svolgono un ruolo fondamentale nel fornire capitale di rischio alle imprese, ma le opportunità del nostro grande mercato finanziario non vengono sfruttate.
Nell’area dell’euro, solo il 30% circa dei titoli di debito e il 20% delle azioni sono detenuti da investitori in altri paesi, e solo il 10% circa delle attività del settore bancario è detenuto da filiali di banche transfrontaliere. Il completamento dell’unione bancaria e dell’unione dei mercati dei capitali sono le misure fondamentali per migliorarlo. Presi insieme, i guadagni derivanti da questo programma sono alti. Secondo una stima, la rimozione di tutti gli ostacoli al commercio potrebbe aumentare le entrate dell’UE fino al 14% in dieci anni e raddoppiare gli scambi all’interno dell’UE.
Ciò sottolinea perché, soprattutto per i paesi con bassa produttività, invertire la direzione dell’integrazione europea non sarebbe un percorso redditizio. Inoltre, un mercato interno ampio e profondo può diventare ancora più importante per proteggerci dagli shock esterni.

Completare il mercato unico offrirebbe inoltre un ulteriore vantaggio. I mercati integrati aiutano a condividere i rischi all’interno e tra i paesi attraverso due canali principali. Si sa che una recessione fa diminuire sia i consumi sia i prezzi delle attività in una regione, il che rafforza la recessione. Ma se le persone possono diversificare le loro attività in diverse regioni, queste possono mantenere i loro consumi attingendo alle risorse detenute in parti dell’area con rendimenti migliori.
Il secondo canale è un settore bancario integrato. Poiché le banche locali sono fortemente esposte all’economia locale, una recessione porterà ingenti perdite e le spingerà a tagliare i prestiti a tutti i settori. Ma se ci sono banche transfrontaliere, queste possono compensare le perdite con guadagni in altre regioni e continuare a fornire credito.
Pertanto, per stimolare la crescita, bisogna completare il mercato unico in tutte le sue dimensioni. Così colmando le lacune che restano nell’architettura istituzionale dell’UEM.

Contro l’unione monetaria. In primo luogo, dobbiamo superare gli ostacoli che frenano una più profonda integrazione finanziaria.
Abbiamo compiuto passi importanti con la vigilanza bancaria europea e col meccanismo di risoluzione delle crisi. Le banche hanno aumentato il capitale e ridotto le sofferenze.
Ma c’è ancora da completare il risanamento dei bilanci bancari anche con fusioni transfrontaliere di banche e rimuovendo le barriere regolamentari e di vigilanza che ostacolano l’attività transfrontaliera. Ad esempio, la regolamentazione che limita il libero flusso di capitali all’interno delle banche transfrontaliere.
Tuttavia, il livellamento del campo di gioco non basta per una migliore integrazione finanziaria.
Prendiamo l’esempio delle restrizioni sul libero flusso di liquidità e capitali. Questi ostacoli esistono perché esiste un quadro incompleto per affrontare le crisi bancarie. Con le autorità nazionali incentivate a limitare i flussi di capitale, per proteggere i depositanti dai fallimenti bancari.
Con la condivisione del rischio attraverso il fondo di risoluzione, gli incentivi nazionali per limitare questi flussi scomparirebbero. Ciò porterebbe quindi a una maggiore integrazione bancaria.
Se i mercati sanno che le banche possono fallire in modo efficiente si ridurranno i costi delle crisi. In altre parole, la condivisione del rischio riduce i rischi.
La stessa interazione si applica alle politiche fiscali. Nella crisi abbiamo visto come la mancanza di spazio fiscale, per stabilizzare l’economia, possa creare un circolo vizioso di bassa crescita, aumento degli spread e “credit crunch” bancario.
Finché esiste questo rischio la piena integrazione finanziaria sarà scoraggiata. Quindi, la prima priorità è rendere le politiche fiscali nazionali più efficaci, rendendo le regole fiscali comuni più anticicliche e vincolanti. Ma le politiche interne non sono sempre sufficienti. I mercati possono reagire in modo eccessivo e penalizzare gli Stati oltre il necessario, con danno per la crescita e peggiorando la sostenibilità fiscale. Per questo esiste un ruolo nazionale nella condivisione del rischio; ma completando l’unione bancaria e dei mercati dei capitali, questo diventerà più piccolo.
Serve quindi uno strumento fiscale che integri la politica monetaria per dare stabilità a livello di Eurozona e in ciascuno degli Stati membri. La forma di questo strumento è aperta alla discussione. Ma le proposte dovrebbero costruire uno strumento adeguato a ripristinare la stabilizzazione fiscale.

Il commento:

Mentre i nostri politici tendono a banalizzare le questioni più complesse, senza partecipare al dibattito attuale in Europa, volto a serrare i ranghi con la prossima, ancora non del tutto certa Brexit, nelle diverse sedi dell’Unione si stanno ponendo le basi per ulteriori passi avanti nella costruzione europea. Nei giorni scorsi ho postato il breve – ma denso – discorso di Daniele Nouy, Presidente della Vigilanza bancaria europea, che spinge per una legislazione bancaria europea comune (cioè limitando al minimo le autonomie nazionali) e per un ulteriore rafforzamento del sistema bancario europeo attraverso la riduzione dei costi, la tecnologia e le fusioni transfrontaliere. In questa scia si muove Mario Draghi per quanto attiene alla politica monetaria e per l’armonizzazione delle politiche fiscali e di bilancio nazionali.
La risposta da dare in questi momenti difficili dovrebbe seguire l’esempio dei padri fondatori dell’Unione monetaria. C’è tanto lavoro ancora da fare per completare l’Unione e Draghi pone come esempio, non a caso, l’impegno di costruire “un’ unione più perfetta”, sancito dalla costituzione degli Stati Uniti.
Se i progressi degli anni ’80 avevano come obiettivo primario, quello di dare alla crescita economica la massima priorità, gli obiettivi di oggi includono la sicurezza personale ed economica, il superamento della disoccupazione giovanile; il rafforzamento dei modelli sociali per curare meglio gli ammalati e gli anziani.
Come raggiungere questi obiettivi? Oggi, come trent’anni fa, ripristinando il sentiero di crescita, nel rispetto dei valori europei comuni. Ma per far questo, anche aprendo ancor più e regolamentando un mercato unico dei capitali, della finanza e delle banche, che devono diventare trans frontaliere per limitare i rischi di shock nei singoli mercati domestici. Insomma ulteriori cessioni di sovranità nazionali, di cui la politica attuale si accorgerà, forse, a cose fatte, lanciandosi nel tradizionale sport nazionale del lamento contro le istituzioni europee.

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