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Marta Fana e il dilagare del lavoro povero e sfruttato

La sinistra deve riportare al centro delle sue politiche il lavoro e i suoi diritti. E’ questo il tema al centro del libro di Marta FanaNon è lavoro è sfruttamento“, edito da Laterza. Da qui parte un filo che evidenzia come se si ribalta il tavolo, se il lavoro torna ad essere centrale nella riflessione della sinistra, allora si può ragionare di una economia attenta agli uomini prima che ai profitti, smantellando quelle credenze che hanno invaso anche la sinistra per le quali la globalizzazione e il mercato rendono obbligatorie certe scelte che sacrificano i diritti e la dignità dell’uomo.

Il libro di Marta Fana è un libro “arrabbiato” di quelli che mentre li leggi ti devi tenere in equilibrio per evitare che la rabbia prenda il sopravvento sul ragionamento. Ma la rabbia ha mille ragioni per essere presente ogni qual volta si ragioni di lavoro e delle sue condizioni oggi.
Provo a segnare alcuni punti che mi sembrano importanti. Il tema dell’impoverimento del lavoro si pone su tre diversi livelli che colpiscono tutte le generazioni di lavoratori e soprattutto i giovani. Scrive Marta Fana: “Il dilagare del lavoro povero, spesso gratuito, la totale assenza di tutele e stabilità lavorativa sono fenomeni all’ordine del giorno, che si abbattono su più di una generazione, costretta a lavorare di più ma a guadagnare sempre di meno”.

Ovunque giriamo gli occhi assistiamo a questo fenomeno che riguarda tutti i settori produttivi, le imprese grandi come quelle più piccole. Sembra che tutto questo sia ineluttabile, che siano i meccanismi della globalizzazione, i processi economici a determinare le scelte. E qui l’autrice ci richiama a prestare attenzione al fatto che “i processi economici non sono nient’altro che processi politici di potere, di riproduzione di rapporti di forza”. In questo modo si rivendica il valore della politica che non è una, ma aperta a molteplici pratiche e dipende dal modo di intendere i rapporti economici. Se muovo dal presupposto che l’idea stessa della classe lavoratrice va tenuta lontano dal nostro tempo e che la stessa democrazia nel lavoro, e conseguentemente nella società, è pericolosa perchè conduce al socialismo o peggio alla destrutturazione delle relazioni socio-economiche nella società, allora tutto diventa lecito: contrapporre gli anziani ai giovani, come se lo scontro di classe fosse solo quello generazionale; creare la contrapposizione tra diritti dei consumatori e dei lavoratori che permette l’assalto del capitale a questi ultimi, facendo arretrare i loro diritti in nome del consumo; accettare il lavoro di masse di giovani costretti dalla “buona scuola” ad imparare che c’è un tempo in cui lavorare gratis, abituandosi quindi a essere sfruttati, facendoli vivere nell’inganno per cui essere disposti a lavorare senza alcuna remunerazione è un vantaggio, soprattutto per loro; soprattutto rendere il mercato del lavoro più flessibile, un obiettivo di politica economica funzionale al rafforzamento del capitale e della sua autorità sul lavoro e sui lavoratori.

Marta Fana insiste molto sul tema dei giovani, del resto è il suo mondo. Ci ricorda allora che mentre gli studenti devono lavorare gratis, si riducono le ore di lezione e, soprattutto si investe meno in istruzione, ricordandoci che “L’Italia è nel 2016 il paese europeo che spende meno in istruzione: il 4,2% del Pil nel 2013 contro una media europea del 5,3% e un massimo della Svezia col 7,3%. Tra il 2008 e il 2013 la spesa è diminuita del 14%, riporta l’Education at a Glance dell’Ocse del 2016”.

Il tema della formazione torna sempre nel lavoro dell’autrice, perchè interessa tutto il mondo del lavoro: da chi deve entrarvi fino a chi deve restarci. Ma la formazione deve essere totale, interessare non solo gli aspetti delle tecnicità del lavoro, ma anche quelle della consapevolezza del proprio ruolo per sconfiggere alcune idee che hanno determinato il ridimensionamento del valore del lavoro, al di là del produrre.
Avallare l’idea della centralità dell’impresa quale unico soggetto capace di generare crescita e quindi occupazione ha provocato un rafforzamento delle diseguaglianze” e ha fatto sì che si sia dato spazio non ai diritti e alla dignità del lavoro, ma alla fedeltà, alla lealtà nei confonti dei superiori, al principio di obbedienza, alla fine della possibilità di rivendicare i propri diritti davanti ai superiori.

I temi che pone Marta Fana non sono nuovi: molti erano stati affrontati da Luciano Gallino in alcuni testi ai quali l’autrice non può non aver fatto riferimento (tanto da citarlo): in particolare vale la pena di ricordare “Il lavoro non è una merce” (2007), “La lotta di classe dopo la lotta di classe” (2012), “Vite rinviate. Lo scandalo del lavoro precario” (2014). Ma qui, oltre all’analisi sociale e alla narrazione dei drammi personali si sottolinea il rapporto tra economia e politica insistendo, come abbiamo detto “in modo arrabbiato”, che è necessario qui e ora impegnarsi per rilanciare un progetto alternativo che cambi i rapporti di forza e definisca una politica industriale ed economica fondata su altri parametri, che consenta, peraltro, di far uscire l’Italia da un percorso perverso che la sta avviando verso uno stato di subalternità produttiva. E qui emergono le responsabilità della politica e degli imprenditori italiani. “Il disinteresse della grande industria per la ricerca e l’investimento, così come l’incapacità della piccola e mediamimpresa di investire, hanno ineluttabilmente provocato un arretramento dell’industria italiana” e convinto che l’unica leva sulla quale puntare per sostenere l’economia sia la compressione dei salari e dei diritti. Anche questo un tema che con grande lungimiranza aveva affrontato Gallino quasi una quindicina di anni fa nel suo “La scomparsa dell’Italia industriale” (2003)

Il passaggio decisivo oggi è quello di porre al centro di un nuovo progetto economico la dignità e il diritto del lavoro, rimettendo in discussione l’organizzazione della produzione, ma anche il nostro modo di intendere il consumo. Per farlo si deve tornare a comprendere che la lotta di classe esiste ancora e che a vincerla, in questa fase storica, sembra essere il Capitale, che poi si impersonifica nelle figure degli imprenditori rampanti alla Marchionne o a quelle più misere dei Farinetti.

Un libro da leggere per avere un punto di vista altro da quello dominante e con una carica etica che in tempi di miseria intellettuale e morale appare indispensabile.

Nella foto di copertina: Marta Fana

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