Renzi_Berlusconi

Promesse elettorali e risanamento

Con la ridiscesa in campo dell’eterno Berlusconi  si sta definendo la fiera delle proposte insensate, volte a catturare voti alle prossime elezioni. Dalle pensioni minime a 1000 euro, un inno al lavoro nero tale da sconsigliare i giovani precari a versare o far versare i contributi previdenziali, all’eliminazione del bollo sulla prima auto, alla flat tax (23% per Berlusconi, 15% per Salvini) e all’azzeramento di ogni onere residuo sulla prima casa. Gli altri “competitor”, come noto, non sono da meno: dalle nuove promesse di bonus di Renzi, da finanziare coi 50 miliardi annui di nuovo debito per i prossimi cinque anni (tanto vale il “ritorno a Maastricht” di stare appena sotto il 3% di deficit/PIL) alla “nuova rivoluzione liberale” annunciata da Di Maio, fatta tra l’altro di reddito di cittadinanza per tutti “coi soldi dell’Europa” (cioè nuovo deficit) anche per fare non ben definiti “investimenti”.

Da qui si comprendono le preoccupazioni in Europa per il populismo dilagante, che ormai pervade il 90% delle forze politiche italiane (nella sinistra la razionalità non sembra ancora perduta), preoccupazioni espresse con rudezza alcune settimane fa da Jyrki Katainen quando ha detto che “i politici italiani mentono sui conti pubblici, la cui situazione non sta affatto migliorando”.
Una affermazione pesante ma dettata dal rinvio, anno dopo anno, degli obiettivi di risanamento: questi nel 2014 promettevano un avanzo primario (saldo tra entrate e spese pubbliche al netto degli interessi sul debito) del 4,6% del PIL per il 2017. Un obiettivo rivisto al ribasso ogni sei mesi, fino a circa l’1,7% che dovrebbe realizzarsi quest’anno. Una riduzione, di volta in volta, giustificata dagli “effetti del ciclo economico”, frutto di crescite zero o zero virgola. Giustificazioni peraltro non più proponibili, visto che il 2017 dovrebbe chiudere con una crescita del PIL doppia rispetto alle previsioni (+ 1,8% nei 12 mesi terminanti a settembre 2017, contro lo 0,9% previsto) e più vicina alla media europea.

Anche se a fine anno si potrebbe avere per la prima volta, nel decennio della crisi, una limatura di qualche decimo del rapporto debito/PIL, è evidente che l’asfittico avanzo primario e le prospettive legate alle promesse elettorali insensate renda assai nervosi gli altri paesi dell’Eurozona e rafforzi la nostra fama di partner inaffidabili. Mentre altri paesi realizzano addirittura surplus netti di bilancio, sfruttando l’eccezionale stagione di tassi zero imposta dalla BCE, in Italia bonus e tagli di imposte senza tagliare la spesa, hanno cfrenato il percorso di risanamento dei conti pubblici. Che paghiamo, tra l’altro, con uno spread molto pesante, di almeno 100 punti base più alto rispetto agli altri: cioè tanti miliardi di costo aggiuntivo per il “rischio Italia”.
In una articolo su La Stampa del 17 novembre, Carlo Cottarelli, l’ex Commissario alla “spending review” scrive: “abbiamo sacrificato il rafforzamento permanente dei nostri conti per crescere un po’ di più nell’immediato. Per cui ora ci ritroviamo con un surplus primario dell’1,7 per cento, più basso non solo di quanto promesso, ma anche di quello del 2012 (2,5 per cento): siamo arretrati”. 
Ma come tutti gli anni passati la discesa del debito è rinviata al futuro: col debito da ridurre dall’attuale 132% del PIL al 123,9% nel 2020, con una accelerazione più forte, come le altre volte, nell’anno più lontano.

Intanto la legge di bilancio all’esame del Parlamento, presentata alla Commissione Europea in una versione “light” (cui è già stato risposto con la richiesta di operare a maggio prossimo una correzione di almeno lo 0,2% del PIL, cioè 3,5 miliardi) sta assumendo una veste pre elettorale: pur mantenendo inalterati i saldi, infatti, aumentano le uscite, caricando le “coperture” aggiuntive di entrate incerte.
Senza dimenticare che si sta lasciando al governo che uscirà dalle elezioni un rinvio di tante spese, oltre alla sempre incombente tagliola delle «clausole di salvaguardia», rappresentata da aumenti di IVA e accise, finora sempre disinnescate.
Tutto questo fa comprendere che, passata la sbornia delle promesse elettorali, chiunque governi non potrà evitare la pressione europea per agire decisamente a risanare i conti pubblici. Il che sarebbe anche nell’interesse di una politica responsabile, per evitare il ritorno dell’incubo su tassi e spread di fine 2011, per la fine – presto o tardi – del quantitative easing della BCE di Mario Draghi, ormai vicino a scadenza mandato, e per una crisi di sfiducia dei mercati, innescata da chi ha investito nei titoli di Stato italiani.

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