Mi ha molto colpito l’articolo di Massimo Giannini su “la Repubblica” di oggi, 4 ottobre. Già dal titolo, “L’intifada rossa che dilania la sinistra”, l’autore faceva intuire che lo stato dei rapporti all’interno delle forze politiche del centrosinistra è ad un livello talmente aspro che le possibili macerie che ne deriveranno potranno essere fatali non solo per la sinistra, ma per l’intero Paese.
Lo spunto è la posizione assunta dai Gruppi Parlamentari di MDP e Campo Progressista di votare a favore alla relazione con cui il Governo chiederà al 2020 lo slittamento del pareggio di bilancio, contro, invece, alla nota di aggiornamento del DEF che è una sorta di programma economico-finanziario sul futuro; un documento, in sostanza, di natura politica più che tecnica. La ragione di una simile scelta, hanno spiegato Speranza ed altri, sta nell’assumersi la responsabilità di non permettere un aumento per il 2018 delle aliquote IVA, misura che colpirebbe maggiormente i ceti più deboli. Ma allo stesso tempo, non essendovi la chiara volontà di impegnarsi quanto meno sull’abolizione del Superticket e sul reperire maggiori risorse per la sanità pubblica, il Governo non potrà contare sul voto favorevole di Art. 1.

Giannini giudica questa posizione come “fintamente” responsabile. Un puro tecnicismo politico che serve a marcare una discontinuità senza far cadere l’Esecutivo. In realtà, secondo l’editorialista, la vera posta in gioco è il “Rosatellum bis” che letteralmente definisce come “l’ennesimo, orribile Frankestein”. Una legge elettorale che a Renzi serve per “nominare i suoi fedelissimi e diserbare la metà campo alla sinistra del PD”.
Di conseguenza, i Democratici e Progressisti, fiutato il pericolo mortale, reagiscono usando la manovra economica come pretesto per indurre il PD a modificare la proposta di Legge elettorale.
Tatticismi, quindi, da una parte e dall’altra che non hanno però davvero a cuore le sorti di una nazione che rischia di essere consegnata ad una destra sì resuscitata, ma il cui profilo programmatico si annuncia assai confuso vista la difficoltà di tenere assieme su questo terreno Berlusconi, la Meloni e Salvini, o ad una “setta cyber-populista dalle ricette velleitarie”.

Massimo Giannini non nasconde tutto il suo disprezzo politico per Renzi, definito “leader di una modernità dal respiro corto”, ma la presunta e completa assenza di una strategia politica di ampio respiro che non si esaurisca in quelli che giudica mediocri e opposti personalismi la imputa ad un altro Massimo, D’Alema.
Da lui si sarebbe aspettato non solo altro, ma molto di più in quanto erede di quella storia unica, originale e irripetibile, in Italia e nel resto del mondo, che fu rappresentata dal PCI. Un partito, ha ragione Massimo Giannini, che anche nei momenti più bui aveva la capacità di analizzare la fase non disgiungendola mai dalla volontà di indicare un percorso, un approdo collettivo.

Se si è dotati di onestà politica ed intellettuale, e Dio sa quanto servano in questo particolare e delicato momento, bisogna ammettere che le riflessioni di Giannini sono più che fondate ed inducono, inevitabilmente alla riflessione. Il Ministro Orlando, nell’ultima Assemblea Nazionale del PD, disse avrebbe sempre preferito un’alleanza con Bersani, piuttosto che Berlusconi. Io, come dire, rilancio: preferirei sempre essere al fianco di D’Alema, piuttosto che a quello di alcuni dirigenti, parlamentari e ministri del PD. E’ sicuramente un’iperbole, ma serve a testimoniare la stima che nutro nei suoi confronti. Tuttavia non posso non constatare che, soprattutto nel recente passato, vi è stato un eccesso di personalismo, di malcelata avversione personale nei confronti di Renzi che ritengo non solo politicamente inutile, ma dannosa per lui e per il Movimento che rappresenta. La stessa più o meno annunciata (ri)discesa in campo, è stata da molti letta più come una sorta di rivincita personale che una scelta squisitamente politica e utile alla sinistra e al Paese.

Quindi, se molto è sicuramente da condividere in quanto scritto da Giannini, temo però che le sue riflessioni abbiano un serio limite, e cioè quello di non valutare appieno la “qualità” dell’attuale classe dirigente. Se il nostro Parlamento dal “Mattarellum” in poi non è capace di elaborare uno straccio di Legge elettorale che garantisca il minimo sindacale in una democrazia, rapporto eletti/elettori e tendenza a governi stabili e coesi, quanto piuttosto leggi pensate solo per danneggiare l’avversario di turno, un motivo ci sarà pure .
E il motivo, ritengo, sia da ricercare nel fatto che con la crisi e la scomparsa dei grandi partiti di massa della Prima Repubblica è venuta meno anche la severa e selettiva scelta delle classi dirigenti. Perché quei partiti, pur con molti limiti, errori e (diciamolo pure) schifezze, producevano una classe politica educata alla capacità di analisi e alla ricerca di soluzioni di largo respiro e da un orizzonte temporale non limitato alla durata di una legislatura. Era una classe politica, per dirla con Peppino Caldarola, a cui se proponevi un seggio in Parlamento ci rimaneva male perché non gli avevi proposto di diventare Segretario di federazione.

Se la corsa a diventare leader nazionale di un partito è solamente funzionale alle proprie e personalissime ambizioni politiche (e vale per Renzi, come per Salvini e Di Maio), se un posto in Parlamento dipende dal numero di tessere e di consensi in qualsiasi modo ottenuti e da sfruttare alle primarie, se anche i congressi di circolo sono la resa dei conti per piccole ambizioni, come eviti la deriva nichilista che colpisce gran parte della sinistra italiana? Anch’io mi aspetto altro da D’Alema. Ma mi aspetto anche altro da Bersani, da Speranza, da Pisapia. Galeotto fu il libro e chi lo scrisse. Io ho aderito ad Art. 1 dopo aver letto il libricino di un visionario che dopo aver fatto bene in Toscana, vorrebbe far bene in Italia. Per me quella visione di partito, di sinistra, di società rimangono la conditio sine qua non per continuare nel mio impegno di militante. La sinistra inizi seriamente ad interrogarsi sul suo futuro. E’ un attimo che il pessimismo della ragione prenda il sopravvento sull’ottimismo della volontà.

Nella foto: Massimo D’Alema

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