Andrea Califano

Andrea Califano: Articolo Uno e l’Europa

Alla tre giorni di Milano si è discusso anche d’Europa: troppo poco, come riconosciuto da Speranza nell’intervento conclusivo. Per il nostro movimento, non è e non sarà facile prendere posizione, ancora meno riuscire a declinarla nello spazio angusto tra le due visioni che al momento dominano il dibattito pubblico: da una parte, lo stanco ripetersi del mantra del “più Europa”, acritico e pronto a difendere – quando non promuovere – politiche che, negli ultimi anni, hanno bloccato la crescita, aumentato le disuguaglianze e le ingiustizie (reali e percepite), esautorato gli organi democratici nazionali, allontanato i cittadini dalle istituzioni; in una parola promosso quel liberismo che troppe volte ha permeato anche l’iniziativa politica dei partiti della sinistra europea, e dal quale Articolo Uno vorrebbe, invece, con forza prendere le distanze. Dall’altra, la visione più apertamente reazionaria: contraria all’integrazione europea per quegli elementi di progresso che, almeno alle sue origini, avrebbe voluto rappresentare; elementi di apertura culturale, di promozione dei diritti civili (e sociali?), di introduzione di metodi democratici nei rapporti tra le nazioni. Quest’ultima visione è ormai stata etichettata come “populista” o “anti-sistema”, e contro di essa è stata sempre di più invocata la necessità di un’alleanza tra le forze politiche razionali e responsabili, riunite in nome della prima visione, ovvero, per dirla schiettamente, in nome della difesa del liberismo. Lo schema ha funzionato, la condanna del populismo è una delle credenziali necessarie per ottenere il patentino di democratico e, paradossalmente, di progressista. Paradossalmente in quanto ogni malcontento, ogni rivendicazione, e quindi ogni istanza di cambiamento, di progresso vengono ormai bollate come populiste e quindi da combattere.

Articolo Uno non può stare a questo gioco. Abbiamo il compito di raccogliere la sfida, ascoltare il malcontento popolare, aggregare questa disordinata insofferenza, e con urgenza elaborare una sintesi che si ponga come alternativa – concorrente e in opposizione – non solo all’interpretazione più grettamente reazionaria che viene fatta dalle destre nazionaliste e xenofobe (chiamiamo le cose con il loro nome), ma anche alla narrativa più subdolamente reazionaria portata avanti dalle destre elitiste e liberiste (chiamiamo le cose con il loro nome). Chiamiamo le cose con il loro nome: basta dunque con la costante denigrazione del “populismo”, che troppo facilmente si risolve nella irrisione del popolo e di chi lo rappresenta (en passant: i vari Di Maio, Di Battista, Fico… sono stati eletti, e rappresentano, milioni di elettori. Ogni volta che ci facciamo beffe di loro e della loro mancanza di cultura, stiamo sbeffeggiando anche gli elettori che questi rappresentano, per lo più persone di bassa estrazione sociale, economica e culturale).

La scelta del popolo non può essere appaltata ad elite benpensanti: credo lo abbia detto recentemente D’Attorre. Il nostro ruolo non dev’essere quello di educare, giudicare, decidere per conto di chi si è ritrovato ai margini della nostra società. Vedo il ruolo di Articolo Uno – ed in questo credo che possa segnare una forte discontinuità con le recenti esperienze del centro-sinistra, nel senso più ampio del termine – come un ruolo dialettico, di confronto con chi è sempre più marginalizzato ed escluso dal quelle ristrette prospettive di crescita che abbiamo, e soprattutto dalla possibilità di influenzare il modello di sviluppo che vogliamo perseguire. Concordo con Anna Falcone, la priorità è questa: ascoltare, aggregare, fare sintesi, e tornare a rappresentare le fasce di popolazione che più non hanno rappresentanza: lavoratori, precari, disoccupati, quei quasi 5 milioni di poveri. Facciamo questa scelta, sapendo che ci porta anche allo scontro con l’Europa; o meglio, con l’Unione Europea, con questa Unione Europea, nella consapevolezza che l’idea di Europa alla quale siamo affezionati può prendere corpo e vigore solo in antitesi con questa Unione Europea.

Nella foto: La grande partecipazione di pubblico a Fondamenta

Enrico Rossi l’ha detto chiaramente sabato a Milano: è la destra che mette in discussione l’Europa e aliena i ceti popolari dal progetto europeo; senza di questi, il progetto europeo è un ramo secco. Recuperiamo il rapporto dialettico con il popolo, diamo questa linfa alla nostra azione politica e sarà possibile muovere verso un’altra Europa – con la nostra Costituzione sotto braccio. Non sarà facile destreggiarsi, troppo abbiamo indugiato e troppo abbiamo concesso, come sinistra, all’una e all’altra destra: penso ale privatizzazioni selvagge, penso al pareggio di bilancio in Costituzione, penso all’abolizione dell’articolo 18, penso all’impronta liberista che abbiamo tentato di dare persino alla scuola, penso al decreto Minniti-Orlando, dal quale ci stiamo, finalmente, faticosamente smarcando. Anche l’attuale condizione dell’Unione Europea è conseguenza, come ha ricordato Galli, della convergenza tra la destra e la sinistra che ha fatto la destra.

Questo ci pone davanti a una sfida di credibilità che implica anche un cambio di stile, una sfida difficile nella quale abbiamo però un aiuto. Si tratta del bellissimo nome che ci siamo dati, programmatico così come programmatica è da intendersi la nostra Costituzione. In primo luogo, come da subito è stato detto, la nostra è una Repubblica Democratica basata sul lavoro: torniamo a difendere il lavoro. “Quando non sai cosa fare – anche questo è stato ripetuto dai nostri dirigenti (ed è stata per molti una liberazione!) – fa’ quel che devi!” Ma c’è poi la seconda parte del primo articolo della Costituzione, almeno altrettanto fondamentale, sulla quale i nostri dirigenti devono interrompere il cauto silenzio: mi pare anzi che solo da questa possa discendere la prima. La sovranità appartiene al popolo: non vi si legge che la sovranità appartiene ad istituzioni tecnocratiche sovranazionali (leggi: la commissione europea), né a consessi tra governi di altri paesi (leggi: intese ad hoc tra governo tedesco e governo francese, etc.). Prendiamoci in carico anche questa parte dell’articolo uno, torniamo nei nostri territori e cerchiamo di capire cosa ha da dire questo “popolo” e di porci come tramite della sovranità che gli appartiene. C’è infine, infatti, la parte finale dell’articolo: questa sovranità popolare deve essere esercitata nelle forme e nei limiti della costituzione. Iniziando dal territorio e dalle nostre sezioni, riportiamo allora al centro il parlamento e gli altri corpi intermedi, partiti e sindacati, ovvero gli strumenti che la nostra costituzione prevede affinché il popolo eserciti la sovranità che gli appartiene.

Non possiamo permetterci di lasciare il tema della sovranità ai Trump, alle Le Pen o –addirittura– ai Salvini: per il futuro del nostro Movimento e, a rischio di sembrare retorico, della sinistra e del Paese. Ancora, parafrasando da una delle ultime uscite di D’Attorre, c’è tutto un pezzo di mondo popolare e del lavoro che è ai margini e che non riusciremo ad intercettare con la riproposizione di un liberismo progressista e con una politica economica che non ridiscute gli assi fondamentali delle politiche di questi anni (con la richiesta, presso l’UE, di “un po’ più di flessibilità”). Anche il voto francese indica che una sinistra gentile e nostalgica che si compiace di stare con la parte che interpreta in maniera più aggressiva la globalizzazione e l’europeismo non funziona: non facciamo lo stesso errore, una mancanza non elettorale, ma nei confronti dei valori e della società che aspiriamo a rappresentare. Se noi non ci poniamo l’obiettivo di recuperare la società che è andata da un’altra parte, le periferie, i giovani, i ceti popolari, siamo destinati a rimanere in un ambito ristretto che non crea le condizioni per uno sviluppo futuro.

Nella foto di copertina: Andrea Califano

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