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Cultura politica e sinistra

Pubblichiamo il testo dell’intervento introduttivo di Giacomo Bottos, direttore della rivista Pandora, al panel “Cultura politica e nuove forme di partecipazione” durante il seminario “Nelle grandi fratture. Un confronto tra generazioni” organizzato il 13 luglio a Roma da “Sinistra anno zero” e “Ripensare la cultura politica della sinistra” presso l’istituto della Enciclopedia Italiana Treccani.

Che cos’è la cultura politica, della quale siamo qui a discutere oggi? È un termine che non è facile definire, che ha tanti significati e accezioni diversi. Da un lato fa riferimento a un elemento teorico, a un contenuto ideale. Da un certo punto di vista una cultura politica è una visione del mondo – un’ideologia, si sarebbe detto una volta. Ma è al tempo stesso anche altro: nella cultura politica questa visione viene considerata non tanto come teoria astratta, ma come il patrimonio di un soggetto collettivo, come chi, in qualche modo, ne guida l’azione. Quindi parlare di cultura politica significa anche discutere di pratiche, di comportamenti, di senso comune, di territori. Credo che tutto sommato, per discutere di tutto questo, uno dei riferimenti migliori siano ancora alcune pagine di Gramsci – ad esempio quelle del Quaderno 11 – che forse sarebbe bene tornare a leggere.

Noi, lo sappiamo tutti, viviamo in un Paese nel quale sono esistite culture politiche possenti. Culture di matrice diversa tra loro, che hanno dato un’impronta importante alla storia del Paese. Ma non solo: per un lungo periodo hanno anche influenzato la vita quotidiana di una parte importante della popolazione italiana. Si trattava di culture politiche che si erano dotate di poderose strutture egemoniche: istituti di cultura, riviste. Culture che vivevano anche, ma non solo, dentro a partiti che mettevano la politica culturale e la questione degli intellettuali al centro delle proprie agende. Questo è sicuramente vero per la tradizione comunista e socialista, ma lo è anche, in forme diverse, per quella democristiana. Non a caso, il rapporto tra politica e cultura è un tema classico, che percorre come un filo rosso la nostra storia repubblicana, e a cui sono stati dedicati studi importanti.

Ma non voglio soffermarmi su questo. Quello che vorrei evidenziare qui è che proprio questa forza, questa pervasività – anche organizzativa – delle culture politiche nella storia italiana ha favorito, dopo la fine dei partiti storici che a queste culture si richiamavano, un certo modo di impostare la questione. Negli anni Novanta, e anche successivamente, porsi il problema della cultura politica voleva dire innanzitutto chiedersi come gestire un’eredità, come rapportarsi ad un passato ingombrante che ci era stato lasciato in dote. Per dirla in maniera più generale, direi che l’atteggiamento è stato spesso quello di guardare alle culture politiche come ad un dato storico, ad un presupposto. Nei confronti di questo presupposto si potevano avere atteggiamenti diversi: ci si poteva inserire in esso e nella sua scia, cercare di proseguirlo o riadattarlo o, viceversa, si potevano prendere le distanze da esso. Basti pensare all’importanza, anche retorica, che il tema del “Novecento”, dell’eredità del Novecento, ha giocato nel nostro passato recente, spesso slegato da una concreta specificazione storica. Si è trattato spesso di una retorica giocata talvolta come esorcismo ed esecrazione, talaltra come rivendicazione, più o meno orgogliosa, di una storia o di una provenienza.

Un altro segnale dell’importanza che questo atteggiamento ha avuto è l’importanza che è stata data al tema generazionale, al rapporto tra i padri e i figli. E qui Renzi, con l’idea della rottamazione, ma anche con la suggestione, più elaborata, della figura di Telemaco, non fa altro che declinare in forma estrema un filone che gli preesiste. Nello stesso dibattito che ha portato alla nascita del Partito Democratico, in cui naturalmente sono confluiti elementi diversi, era presente questa idea, che forse ne era l’ispirazione più alta: l’idea dell’eredità, del bisogno di riunire e di portare a sintesi le culture politiche del Novecento. Ma, come scrisse all’epoca Emanuele Macaluso si trattava forse già di due culture “al capolinea”.

E voglio, infine, ricordare un’altra declinazione che il tema delle culture politiche ha avuto, che va nella medesima direzione. Penso alla discussione, condotta da studiosi, come Mario Caciagli, Ilvo Diamanti, ma anche Marco Almagisti, sul tema delle subculture politiche territoriali. Anche questo approccio, che ha messo in luce aspetti antropologici, sociali e culturali molto interessanti, affrontava il problema della cultura politica nell’accezione di un’appartenenza, di un’eredità storica sedimentata che, in un determinato territorio, continuava a vivere, o, viceversa, andava verso l’estinzione.

Si è trattato, beninteso, in tutti questi casi, di un approccio legittimo e inevitabile, a cui la nostra stessa storia conduceva. Eppure, se noi seguiamo questo filone, se pensiamo alla cultura politica come patrimonio, eredità e tradizione, di fronte al risultato del 4 marzo noi saremmo vicini al punto di dover proclamare la morte definitiva di queste culture politiche. Le forze che hanno ottenuto la maggioranza dei voti e che appoggiano il governo, al di là di ogni caratterizzazione e valutazione politica, non hanno alcun legame con le culture politiche tradizionali della nostra Repubblica. Anche i risultati recenti delle elezioni amministrative, in Toscana o in Emilia, ci raccontano di un Paese in cui le tradizionali appartenenze territoriali entrano in crisi. “Addio alla provincia rossa”, così si intitola un libro recente di Caciagli. Ma analogo discorso si potrebbe fare per l’Italia bianca. I dati elettorali, ma non solo quelli, ci dicono con chiarezza che, se un tempo indubbiamente esisteva una comunità, un “popolo” oggi i confini di tutto questo si vanno sempre di più e inesorabilmente restringendo. Siamo dunque qui per suonare il de produndis di una storia politica?

Io spero e credo di no. Questa enfasi sull’eredità, sul presupposto e sulla provenienza, ha spesso messo in ombra l’altro elemento che è contenuto nell’idea di cultura politica, ovvero il fatto che essa è il risultato di una costruzione consapevole, è qualcosa che noi facciamo, che possiamo costruire. Come scriveva Marx nella III tesi su Feuerbach, se è vero che l’ambiente ci educa, l’educatore stesso deve essere educato, è esso stesso – solo in parte ovviamente – il risultato di una prassi consapevole. In altre parole occorre ripensare e ricostruire profondamente, radicalmente, le culture politiche. Al tempo stesso però, paradossalmente, può essere proprio la presa d’atto di dover lavorare all’inizio di una nuova storia a portare ad un atteggiamento più sereno e costruttivo nei confronti del passato, visto non più come una galleria degli orrori da cui prendere le distanze o come un oggetto di nostalgia ma come qualcosa con cui confrontarsi, nella consapevolezza della distanza, per interpretare il presente.

Il presente appunto. Perché se ci fosse soltanto la volontà, il mero auspicio, non andremmo lontano. Quante volte abbiamo sentito la frase “Dobbiamo ricostruire la cultura politica della sinistra”? Affinché questa volontà di ricostruire non sia un mero volontarismo, deve trovare un riscontro nell’epoca, nella fase storica che stiamo vivendo. E io credo da tempo – ed è un discorso che ho cercato, insieme ad altri, di portare avanti, anche costruendo degli strumenti culturali che potessero declinarlo – che la fase storica sia contrassegnata da mutamenti incisivi, che richiedono un ripensamento. Ed è forse proprio il non aver fatto i conti con questi mutamenti una delle cause non secondarie delle difficoltà delle forze della sinistra. Una riflessione per la verità realtà c’è stata in questi anni, almeno sul piano intellettuale. Si è sviluppato un nuovo dibattito critico, forse non del tutto soddisfacente nelle soluzioni proposte, ma che ha comunque restituito l’idea di una nuova vitalità. Riflessioni critiche prima marginali sono state portate all’attenzione di un dibattito più ampio. Nuovi temi hanno ottenuto centralità: pensiamo solo all’importanza che ha assunto oggi la questione delle disuguaglianze, oggetto di progetti interessanti anche dal punto di vista organizzativo, come il Forum delle Diseguaglianze e Diversità promosso da Fabrizio Barca. Ma quello che è mancato nel nostro Paese è stata appunto la capacità di elaborare una cultura politica all’altezza di queste riflessioni, ovvero di renderle fonte di vita e di azione per una forza politica che ad esse si ispirasse.

Il Partito Democratico è nato prima della crisi e di questo risente costitutivamente. È un elemento che si è manifestato anche nella profonda difficoltà che quel partito ha avuto nel leggere i mutamenti che la crisi induceva nella composizione sociale del Paese, nella sua struttura economica. Di questo fatto ci sono diverse ragioni: nel DNA del PD c’è una determinata visione della società, che in realtà nasce in relazione a un momento storico preciso. La crisi ha reso obsoleta quell’immagine, portando all’indebolimento e alla radicalizzazione dei ceti medi, intellettuali e non. Era un processo che andava ad aggiungersi alle difficoltà che in precedenza aveva sperimentato la classe operaia, approfondendo e aggravando drammaticamente le fratture sociali. Ma nella struttura e nella cultura politica del PD non vi erano gli strumenti per leggere questi mutamenti e per adeguare di conseguenza l’azione politica. Ma altrettanto incapaci di dare una risposta efficace sono stati coloro che hanno percorso la via della scissione, che ancora una volta riproponeva l’idea dell’appartenenza, del popolo della sinistra che andava di nuovo raccolto e mobilitato. Ma né il popolo né la sinistra esistono in natura: sono entrambi, semmai, il risultato di un’azione consapevole in grado di incrociare i bisogni che la società esprime, ma anche di interpretarli, di esperimenti e di rappresentarli in una forma che non prevede mai una possibilità univoca.

Il risultato del 4 marzo indubbiamente segnala che le forze della sinistra e del centro-sinistra non sono state finora in grado di mettere in campo questa capacità di interpretazione e rappresentanza. La presa d’atto di uno scollamento tra “sinistra” e “popolo”, innegabile, non deve però portare al riflesso condizionato di rincorrere le posizioni della forze che hanno vinto le elezioni per recuperare una presunta vicinanza al popolo stesso. Dovrebbe essere invece lo stimolo ad assumere integralmente, e in tutta la sua complessità, la sfida egemonica che la situazione pone. E allora occorrerebbe dotarsi finalmente di una cultura politica all’altezza dei tempi. Ma questo significa anche e in primo luogo interrogarsi sugli strumenti necessari a un tale compito.

C’è un problema organizzativo, relativo non solo al partito politico, ma anche alla sfera culturale. Come si organizza oggi la cultura? Rispondere a questa domanda presupporrebbe una serie di riflessioni complesse, che non possiamo in questa sede sviscerare. Mi limiterò a indicare qui una serie di domande e di questioni aperte. A quali mutamenti sta andando incontro la sfera pubblica? Come cambiano le forme di soggettivazione politica nell’epoca dei social network? Quali sono le implicazioni della crescente importanza e centralità degli algoritmi e del loro controllo concentrato nelle mani di pochi soggetti, oligopolisti dal potere crescente? Occorre porre il tema di una loro contrattazione, come suggerisce Michele Mezza? Quali sono, su questo terreno, gli strumenti per mettere in campo forme di riflessione comune, per ricostruire l’”intellettuale collettivo”? Assistiamo ad una certa vivacità del mondo culturale e associativo, penso ad esempio al nuovo interesse che sta suscitando il fenomeno delle nuove riviste, che però talvolta si situano lontano rispetto al mondo politico. Nello spazio tra mondo online e mondo fisico, in quel divario che tende sempre più ad annullarsi in coincidenza con le attuali trasformazioni economiche, si sviluppano nuove energie di vario genere. Tutto questo forse richiederebbe un’attenzione e uno sforzo maggiori? E ancora, in relazione a questi processi, dobbiamo chiederci come sta cambiando l’antropologia. Assistiamo ad un contraddittorio coesistere di individualismo e nuove istanze comunitarie.

Quale può essere un modo produttivo di inserirsi in queste dinamiche? A tutte queste, e a molte altre domande – qui ho indicato solo quelle attinenti più strettamente alla sfera culturale – dovrebbe dare risposta una nuova cultura politica. La fase in cui siamo crea uno spazio per pensare tutto questo. Non c’è però alcun automatismo. Il rischio dell’estinzione per la sinistra e la sua cultura politica è presente e reale. Come scriveva Alfredo Reichlin poco prima di morire “la sinistra rischia di restare sotto le macerie. Non possiamo consentirlo. Non si tratta di un interesse di parte ma della tenuta del sistema democratico e della possibilità che questo resti aperto, agibile dalle nuove generazioni”. Evitare quell’esito richiede molta intelligenza ed equilibrio, richiede di evitare la subalternità da un lato, e l’alterità incapace di comprendere i processi storici dall’altro. Siamo sulla scogliera e abbiamo già perso l’equilibrio. Sta a noi decidere se saltare o sfracellarci.

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