Veneto Banca

Decreto banche, tecnicamente non votabile

Il decreto per la liquidazione coatta di Popolare Vicenza e Veneto Banca è stato adottato dopo che la BCE le ha dichiarate in dissesto e il Single Resolution Board ha ritenuto impossibile la “risoluzione” non sussistendo l’interesse pubblico. Con questi escamotage, cui si aggiunge il via libera della Commissione Europea sulla non sussistenza di aiuti di Stato con la liquidazione nazionale, sono stati accollati al contribuente i costi dell’operazione.
Alla fine vengono coinvolti azionisti e creditori subordinati.
Banca Intesa acquista le filiali, i depositi e gli impieghi, esclusi i deteriorati e i crediti “normali” ma a rischio. Il tutto senza pregiudizio della capacità operativa, del patrimonio e dei dividendi di Banca Intesa.

Gli aiuti di Stato sono 5,200 miliardi circa “cash” più le garanzie prestate fino a circa 12 miliardi, sui 20 miliardi a disposizione da inizio anno (6,351 miliardi per la “diligence” sugli asset ceduti e 4 miliardi per gli obblighi di riacquisto entro tre anni dei crediti normali a rischio; altri 1.009 milioni a garanzia dei contenziosi pregressi e un accantonamento a fondo rischi fino a 491 milioni). I crediti deteriorati e il resto vanno alla Società per la Gestione di Attività S.p.a. (SGA) del Mincomes.

Per i creditori subordinati al dettaglio è previsto un ristoro parziale simile a quello usato per i risparmiatori delle quattro banche dell’Italia centrale. Saranno chiuse 600 filiali e usciranno 3.900 persone dal nuovo gruppo (compresi i dipendenti di Intesa) con l’applicazione del Fondo di solidarietà e altre misure a salvaguardia dei posti di lavoro quali il ricorso alla mobilità. L’acquisto include le banche in Moldavia, Croazia e Albania. Insomma 900 sportelli in Italia e 60 all’estero; 9.960 persone in Italia e 880 all’estero.
In aggiunta, le imposte differite attive delle banche acquisite saranno usufruibili da Banca Intesa.

Il contratto contiene una clausola di inefficacia se il Decreto non sarà convertito ovvero convertito con modifiche tali da rendere più onerosa per Banca Intesa l’operazione.

Insomma, siamo di fronte a una evidente privatizzazione dei profitti e di socializzazione delle perdite. Una classica situazione TINA (there is no alternative) che si palesa dopo anni di inazione, di rimpalli e di incomprensioni tra autorità europee e nazionali, governo e sistema bancario.
Le banche potevano essere salvate due anni fa, fondendole, con gli aumenti di capitale per 2,5 miliardi di entrambe, già deliberati da Banca Intesa per Veneto Banca e da Unicredit per la “Vicenza”. Si sarebbe così evitata la vera ragione della loro crisi, che – senza sottacere la cattiva gestione, le irregolarità e i fatti penalmente sanzionabili delle rispettive governance – trae origine dalla crisi di fiducia e dalla conseguente, ovvia, fuga dei risparmiatori. Il che ha reso le banche illiquide e tenute in vita dalle garanzie statali concesse sulle obbligazioni emesse nella crisi e sulla liquidità senza limiti erogata dalla BCE. Analogamente, potevano essere salvate le quattro banche dell’Italia centrale, coinvolgendo tempestivamente sistema bancario e Fondo di garanzia dei depositanti . Al rinvio delle decisioni ed alla loro improvvida “risoluzione” a novembre 2015 con coinvolgimento degli obbligazionisti subordinati, si deve l’innesco della grave crisi bancaria ancora non superata.

Il decreto, a detta di molti giuristi, rivela profili di incostituzionalità per la miriade di deroghe a fondamentali disposizioni del nostro ordinamento, incluse quelle relative alla ‘par condicio creditorum‘. Viene bypassata la normativa antitrust – per consentire a Intesa, una posizione dominante sul mercato del nordest – quella sul lavoro e persino la legislazione edilizia e fiscale sugli immobili delle due banche, che passano alla “acquirente” senza onere alcuno.

Il ristoro per gli obbligazionisti subordinati è poco consistente, poiché, per accedere al rimborso forfettario, sono previsti paletti così stretti (reddito lordo inferiore a 35.000 euro e patrimonio mobiliare inferiore a 100.000 euro) da escludere la classe media, la più esposta su tali investimenti.

Tecnicamente sarebbe un decreto non votabile in sede di conversione: su questa posizione sta convergendo una schiera trasversale di parlamentari e la fiducia non è del tutto scontata, essendo stati presentarti 700 emendamenti, di cui 450 del Movimento 5 Stelle.
Tuttavia, al punto cui si è arrivati, vanno valutati tutti gli effetti di una eventuale mancata conversione. Si tratta, infatti, costi enormi per il Fondo di garanzia dei depositanti (ergo per tutto il sistema bancario) per rimborsare i depositi garantiti e per effettuare gli aumenti di capitale – sgraditi al mercato – necessari a riportare i ratios patrimoniali ai livelli attuali. Si rischia una crisi, forse irreversibile, di fiducia verso le banche e di credibilità per l’intero sistema paese. Rischi davvero gravi e ben presenti alle Autorità di Vigilanza europee ed alla Commissione, che hanno chiuso uno o forse entrambi gli occhi per far passare tale incredibile provvedimento.

La richiesta di fermare il Decreto e di riaprire il confronto con l’Europa su una ricapitalizzazione precauzionale simile a quella di MPS appare del tutto velleitaria e controproducente.
L’argomento sta scatenando polemiche, anche di piazza, alimentate dalle critiche, anche condivisibili, di parte della stampa sul “contratto segreto”, di ben 124 pagine, che regola i rapporti tra Stato e Gruppo Intesa (il testo è stato pubblicato dall’analista Costantino Rover).

La vicenda conferma la tendenza nella gestione delle crisi bancarie recenti. Le autorità provano a rimandare le soluzioni, lasciando che la politica prevalga sull’interesse generale. Si è visto col ritardo nella ricapitalizzazione di MPS, rinviata a dopo il referendum costituzionale, nella nascita del Fondo Atlante e negli sforzi, con scarsi risultati, di proteggere i gli obbligazionisti subordinati retail, cui quei prodotti non andavano venduti. Ora si vede nel gigantesco regalo a Intesa San Paolo per la liquidazione delle banche venete. Qualcuno plaude al decreto come un epilogo felice, altri lo vedono per quello che è: una scelta politica gravosa per lo Stato e per il contribuente.

Il decreto alla fine passerà perché sarà votato anche da FI e dalla Lega – forti nel Nord Est – che ne trarranno benefici elettorali, ma sono convinto che sarà ricordato nella storia come un esempio da non seguire per le generazioni future.

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