Il voto dello scorso 4 marzo ha messo in evidenza le trasformazioni in atto nei sistemi partitici occidentali, dove si registra la crisi dei partiti tradizionali (mainstream) e il successo di quelli anti-establishment, ossia delle forze politiche di recente formazione oppure collocate ai margini del sistema. Questo fenomeno, sebbene si fosse già manifestato in occasione delle elezioni politiche del 2013, non è limitato al caso italiano. Basti pensare alla Spagna, il cui assetto politico da storicamente bipartitico (con l’alternanza tra socialisti e popolari) si è trasformato in quadripartitico a seguito della nascita di Podemos e Ciudadanos, oppure alla Germania, con l’avanzata dell’estrema destra dell’Alternative für Deutschland (AFD) ai danni soprattutto dei socialdemocratici, ridotti ai minimi storici e costretti nuovamente alla grande coalizione. Emblematiche sono state le elezioni presidenziali francesi, in cui i candidati dell’estrema destra e dell’estrema sinistra (Le Pen e Melénchon), hanno ottenuto più voti degli esponenti gollisti e socialisti (Fillon e Hamon). Questa tendenza si può riscontrare anche in Gran Bretagna e negli Stati Uniti rispettivamente con Corbyn e Trump: in entrambi i casi si tratta di figure outsider all’interno dei partiti tradizionali. La differenza ideologica tra i due testimonia come la radicalizzazione sociale e politica possa essere interpretata sia da destra che da sinistra.
Nel panorama politico italiano, l’affermazione della Lega e del Movimento 5 Stelle ha posto fine al dogma della “Terza via”, all’illusione che la sinistra dovesse necessariamente indossare l’abito moderato per conquistare i voti del centro, inteso spesso in senso statico o addirittura identificato con l’establishment. La trasformazione dei comportamenti di voto ha radici anzitutto di natura sociale, legate agli effetti della globalizzazione e ai nuovi conflitti che ne sono conseguiti, i quali hanno contribuito ad accentuare le pulsioni aggressive di un elettorato trasversale. Il voto emotivo si è quindi progressivamente sostituito a quello di appartenenza: non esistono più roccaforti o zoccoli duri sui quali fare affidamento.
Da uno studio condotto dal Centro Italiano Studi Elettorali (CISE) sulla relazione tra classe sociale e partiti, emerge come il Partito Democratico si configuri come partito delle èlite, in quanto raccoglie consensi soprattutto nella classe medio-alta, attraverso «una narrazione ottimistica delle trasformazioni dell’economia e della società contemporanea» .
È interessante considerare come il M5S venga premiato nelle province con livelli più alti di disoccupazione, mentre la Lega in quelle dove si è registrato un maggior aumento della presenza di immigrati . In particolare, il M5S ha una distribuzione sociale del voto piuttosto omogenea. I picchi più alti si registrano tra gli impiegati e gli insegnanti (36,1%), le casalinghe (36,1%) gli operai (37%) ed i disoccupati (37,2%), mentre una quota minore di preferenze è intercettata nei pensionati (26,4%), orientati in maggioranza verso il Pd (27,6%). Nel caso della Lega, bisogna sottolineare come essa sopravanzi il Pd tra i lavoratori autonomi (il 23,6% contro l’11,7%), gli operai (il 23,8% contro l’11,3%), i disoccupati (il 18,2% contro il 10,3%) e le casalinghe (il 19,8% contro il 15,4%) .
Il maggiore partito della sinistra italiana è costretto ad interrogarsi sulla propria identità, trovandosi di fronte ad una doppia opzione. Il declino di Forza Italia aprirebbe un terreno di conquista sia per la Lega che per il Pd, il quale potrebbe essere tentato da un definitivo spostamento a centro, in modo da occupare lo spazio elettorale di chi non si sente rappresentato né da Salvini né da Di Maio, portando così a compimento la propria mutazione genetica. La formazione di un grande partito di centro a vocazione europeista parte però da un errore di fondo: lo scontro in atto è di tipo sociale e non tra populisti/euroscettici e democratici. L’atteggiamento “liberal-sprezzante” ha etichettato come “populismo” ogni forma di protesta della quale non si sono riuscite a comprendere le cause. D’altra parte, negli ultimi anni i partiti tradizionali, ormai svuotati del loro contenuto ideologico, hanno trovato nella lotta agli euroscettici e ai populisti un nuovo collante identitario, favorendo, però, la loro crescita piuttosto che porvi rimedio. Che questa sarebbe stata la conseguenza lo ha espresso più volte anche Pier Luigi Bersani con una sua metafora: “A bastonare il cane tutti i giorni, in tanti poi prendono le parti del cane”.
Una seconda strategia coincide con la risposta al seguente interrogativo: qual è la base sociale alla quale dovrebbe rivolgersi una forza politica europea, progressista e socialista e con quali modalità? La vera questione, dunque, non è limitata ai confini nazionali ed è più profonda della scelta di appoggiare o meno un governo a guida Di Maio, oppure della ricerca di una nuova leadership capace di unire le diverse sigle. Non si tratta, infatti, di un dibattito che esiste nella società. Senza dubbio, sottrarsi a priori ad un confronto sarebbe uno sbaglio. Occorre prendere atto che il M5S è il partito che rappresenta maggiormente i settori della società tradizionalmente più vicini alla sinistra, come si è detto in precedenza, anche se questo non significa che di sinistra sia anche la sua elaborazione politico-culturale.
Nei prossimi anni, riuscirà a riconquistare i consensi dei “perdenti della globalizzazione” soltanto chi sarà in grado di innovarsi sia nei contenuti sia nel contenitore, anticipando le trasformazioni sociali future ed offrendo una “contro-narrazione”. Il successo di ogni tentativo di ricostruzione di una grande forza progressista è subordinato alla capacità di dare risposte praticabili al bisogno di protezione, prima che lo faccia qualcun altro.
È necessario, dunque, dare avvio alla semina, affinché possa produrre effetti nel medio-lungo periodo. Liberi e Uguali avrebbe dovuto intraprenderlo già qualche anno addietro, ma ha finito per illudersi che bastasse la scorciatoia della nomenklatura per garantire un buon raccolto. Il risultato elettorale ha segnato il tramonto del tentativo di costruire un polo progressista alternativo sia ai 5Stelle sia al Pd, per cui il nuovo cammino non può che essere comune alle diverse strutture organizzative attualmente presenti, partendo però dalla consapevolezza che la somma del ceto politico non corrisponde a quella reale degli elettori.
Il tempo della semina
Il voto dello scorso 4 marzo ha messo in evidenza le trasformazioni in atto nei sistemi partitici occidentali, dove si registra la crisi dei partiti tradizionali (mainstream) e il successo di quelli anti-establishment, ossia delle forze politiche di recente formazione oppure collocate ai margini del sistema. Questo fenomeno, sebbene si fosse già manifestato in occasione delle elezioni politiche del 2013, non è limitato al caso italiano. Basti pensare alla Spagna, il cui assetto politico da storicamente bipartitico (con l’alternanza tra socialisti e popolari) si è trasformato in quadripartitico a seguito della nascita di Podemos e Ciudadanos, oppure alla Germania, con l’avanzata dell’estrema destra dell’Alternative für Deutschland (AFD) ai danni soprattutto dei socialdemocratici, ridotti ai minimi storici e costretti nuovamente alla grande coalizione. Emblematiche sono state le elezioni presidenziali francesi, in cui i candidati dell’estrema destra e dell’estrema sinistra (Le Pen e Melénchon), hanno ottenuto più voti degli esponenti gollisti e socialisti (Fillon e Hamon). Questa tendenza si può riscontrare anche in Gran Bretagna e negli Stati Uniti rispettivamente con Corbyn e Trump: in entrambi i casi si tratta di figure outsider all’interno dei partiti tradizionali. La differenza ideologica tra i due testimonia come la radicalizzazione sociale e politica possa essere interpretata sia da destra che da sinistra.
Nel panorama politico italiano, l’affermazione della Lega e del Movimento 5 Stelle ha posto fine al dogma della “Terza via”, all’illusione che la sinistra dovesse necessariamente indossare l’abito moderato per conquistare i voti del centro, inteso spesso in senso statico o addirittura identificato con l’establishment. La trasformazione dei comportamenti di voto ha radici anzitutto di natura sociale, legate agli effetti della globalizzazione e ai nuovi conflitti che ne sono conseguiti, i quali hanno contribuito ad accentuare le pulsioni aggressive di un elettorato trasversale. Il voto emotivo si è quindi progressivamente sostituito a quello di appartenenza: non esistono più roccaforti o zoccoli duri sui quali fare affidamento.
Da uno studio condotto dal Centro Italiano Studi Elettorali (CISE) sulla relazione tra classe sociale e partiti, emerge come il Partito Democratico si configuri come partito delle èlite, in quanto raccoglie consensi soprattutto nella classe medio-alta, attraverso «una narrazione ottimistica delle trasformazioni dell’economia e della società contemporanea» .
È interessante considerare come il M5S venga premiato nelle province con livelli più alti di disoccupazione, mentre la Lega in quelle dove si è registrato un maggior aumento della presenza di immigrati . In particolare, il M5S ha una distribuzione sociale del voto piuttosto omogenea. I picchi più alti si registrano tra gli impiegati e gli insegnanti (36,1%), le casalinghe (36,1%) gli operai (37%) ed i disoccupati (37,2%), mentre una quota minore di preferenze è intercettata nei pensionati (26,4%), orientati in maggioranza verso il Pd (27,6%). Nel caso della Lega, bisogna sottolineare come essa sopravanzi il Pd tra i lavoratori autonomi (il 23,6% contro l’11,7%), gli operai (il 23,8% contro l’11,3%), i disoccupati (il 18,2% contro il 10,3%) e le casalinghe (il 19,8% contro il 15,4%) .
Il maggiore partito della sinistra italiana è costretto ad interrogarsi sulla propria identità, trovandosi di fronte ad una doppia opzione. Il declino di Forza Italia aprirebbe un terreno di conquista sia per la Lega che per il Pd, il quale potrebbe essere tentato da un definitivo spostamento a centro, in modo da occupare lo spazio elettorale di chi non si sente rappresentato né da Salvini né da Di Maio, portando così a compimento la propria mutazione genetica. La formazione di un grande partito di centro a vocazione europeista parte però da un errore di fondo: lo scontro in atto è di tipo sociale e non tra populisti/euroscettici e democratici. L’atteggiamento “liberal-sprezzante” ha etichettato come “populismo” ogni forma di protesta della quale non si sono riuscite a comprendere le cause. D’altra parte, negli ultimi anni i partiti tradizionali, ormai svuotati del loro contenuto ideologico, hanno trovato nella lotta agli euroscettici e ai populisti un nuovo collante identitario, favorendo, però, la loro crescita piuttosto che porvi rimedio. Che questa sarebbe stata la conseguenza lo ha espresso più volte anche Pier Luigi Bersani con una sua metafora: “A bastonare il cane tutti i giorni, in tanti poi prendono le parti del cane”.
Una seconda strategia coincide con la risposta al seguente interrogativo: qual è la base sociale alla quale dovrebbe rivolgersi una forza politica europea, progressista e socialista e con quali modalità? La vera questione, dunque, non è limitata ai confini nazionali ed è più profonda della scelta di appoggiare o meno un governo a guida Di Maio, oppure della ricerca di una nuova leadership capace di unire le diverse sigle. Non si tratta, infatti, di un dibattito che esiste nella società. Senza dubbio, sottrarsi a priori ad un confronto sarebbe uno sbaglio. Occorre prendere atto che il M5S è il partito che rappresenta maggiormente i settori della società tradizionalmente più vicini alla sinistra, come si è detto in precedenza, anche se questo non significa che di sinistra sia anche la sua elaborazione politico-culturale.
Nei prossimi anni, riuscirà a riconquistare i consensi dei “perdenti della globalizzazione” soltanto chi sarà in grado di innovarsi sia nei contenuti sia nel contenitore, anticipando le trasformazioni sociali future ed offrendo una “contro-narrazione”. Il successo di ogni tentativo di ricostruzione di una grande forza progressista è subordinato alla capacità di dare risposte praticabili al bisogno di protezione, prima che lo faccia qualcun altro.
È necessario, dunque, dare avvio alla semina, affinché possa produrre effetti nel medio-lungo periodo. Liberi e Uguali avrebbe dovuto intraprenderlo già qualche anno addietro, ma ha finito per illudersi che bastasse la scorciatoia della nomenklatura per garantire un buon raccolto. Il risultato elettorale ha segnato il tramonto del tentativo di costruire un polo progressista alternativo sia ai 5Stelle sia al Pd, per cui il nuovo cammino non può che essere comune alle diverse strutture organizzative attualmente presenti, partendo però dalla consapevolezza che la somma del ceto politico non corrisponde a quella reale degli elettori.
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Roberto Sullo
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