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Testamento biologico: il governo della vita nelle mani della persona libera

La lettera di Michele Gesualdi sul testamento biologico, fra i molti meriti, potrebbe (il condizionale è d’obbligo) avere anche quello di riaprire l’attenzione del Parlamento su un tema sul quale, nel tempo, sono state presentate ben sedici proposte di legge, giunte ad un testo unificato nell’aprile 2017, ma da allora persa nelle nebbie dei calendari d’aula. Purtroppo dopo alcuni anni di una certa discussione su questi temi, che vanno ben oltre una legge dello Stato e che toccano migliaia di persone in modo diretto e, almeno potenzialmente, ciascuno di noi, è calata una una pesante coltre di silenzio e la politica, concentrata sul proprio ombelico, si è disinteressata totalmente dei suoi cittadini.

Ma qui stiamo parlando, niente di meno, della morte; della morte come certezza della nostra vita. Semplice, no? No, perché la nostra società occidentale ha esorcizzato questo fatto inevitabile della vita e si è concentrata sul processo del morire. Con una inversione logica, però: ci si è impegnati oltre ogni limite per impedire l’inevitabile, ma si ignora ciò che è evitabile, cioè la sofferenza del morire. Invece, un “programma” laico, nel quale pure tutti gli approcci religiosi potrebbero ritrovarsi, è relativamente semplice: evitare la sofferenza, rivendicando la dignità della persona, lasciando così libera la coscienza di ognuno davanti alla morte. Ma per fare ciò, occorre garantire l’autonomia dell’individuo davanti al processo del morire. Dunque, niente a che vedere con l’eutanasia. Quanto piuttosto una opposizione all’accanimento terapeutico come una minaccia alla dignità del morente, oggi sempre più concreta perché supportata da sviluppi tecnologici in continua evoluzione.

E’ il tema inquadrato da papa Francesco, non solo nel chiarire che evitare l’accanimento terapeutico non equivale ad eutanasia, ma anche su ciò che persegue davvero il bene integrale della persona: “Gli interventi sul corpo umano diventano sempre più efficaci, ma non sempre sono risolutivi: possono sostenere funzioni biologiche divenute insufficienti, o addirittura sostituirle, ma questo non equivale a promuovere la salute. Occorre quindi un supplemento di saggezza, perché oggi è più insidiosa la tentazione di insistere con trattamenti che producono potenti effetti sul corpo, ma talora non giovano al bene integrale della persona”. Un supplemento di saggezza che già aveva richiesto nel 1957 papa Pio XII ad un convegno dei medici cattolici, sostenendo come non si potessero imporre tentativi di rianimazione forzata e che tale interruzione non potesse considerarsi eutanasia. Siamo, invece, nell’ambito del principio costituzionale art.32 (“Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”), su cui si era speso in particolare Aldo Moro inquadrandolo nel corretto ambito dei principi fondamentali della nostra democrazia costituzionale: “Si tratta di un problema di libertà individuale che non può non essere garantito dalla Costituzione, quello cioè di affermare che non possono essere imposte obbligatoriamente ai cittadini pratiche sanitarie”.

Ecco dunque la questione principale: la libertà, addirittura. E il suo inserimento nella carta costituzionale che assume la formula della “costituzionalizzazione della persona”. C’è una precisa trama che essa disegna fondata su libertà e dignità, nella duplice dimensione individuale e sociale, che nella Costituzione sono indissolubilmente legate. L’esistenza dignitosa (di cui parla anche l’art.36 in relazione al lavoro e alla giusta retribuzione), la dignità delle persone, non possono sopportare limitazioni della libertà e della coscienza dell’individuo. E’ un filo rosso, questo, che si snoda dall’art.13 (l’inviolabilità della libertà personale), lungo l’art.32 (laddove, proprio in relazione al diritto alla salute, si chiarisce che la legge ha come limite inviolabile il “rispetto della persona umana”), fino all’art.3 (dove l’impedimento alle discriminazioni sulla base delle “condizioni personali” è assoluto).

Dunque, la nostra Costituzione pone nelle mani prima di tutto della persona il governo della vita, ma questo richiede anche un diverso modo di intendere la regola giuridica. Essa, non solo non può pretendere di avocare a sé il diritto assoluto a decidere sulla vita dei cittadini (come pure avvenne nel caso di Eluana Englaro), ma deve ancorarsi certo a dei principi comuni, per poi sapersi rendere flessibile, discreta, capace di seguire la vita (che come diceva Montaigne, “è un movimento ineguale, irregolare e multiforme”) nelle sue sfaccettature, irregolarità, diversità. In un certo modo qui vi è un insanabile conflitto con le caratteristiche fondanti del diritto, cioè il suo dover essere uguale, regolare e uniforme. Nella vicenda italiana, così, al momento di legiferare si è scelto un approccio e degli strumenti vecchi e inefficaci per affrontare questi temi nuovi (eppure ultimi), condizionati dal rapido evolversi della tecnoscienza e della stessa antropologia: alla fine, per paura del nuovo, si è scelta la solita e fallace strada del divieto. Pensiamo alla L.40/2004 sulla procreazione medicalmente assistita, la cui impostazione “proibizionista” non ha resistito né all’evolversi della tecnica e della società, né al vaglio giurisprudenziale. Allo stesso modo ci si è ispirati per il NO all’interruzione dei trattamenti di sopravvivenza forzati, il NO al testamento biologico. Ma proprio quella trama costituzionale fondata su libertà e dignità della persona avrebbero dovuto indicare la strada che è quella di attribuire valore e rilevanza alla volontà dell’interessato, escludendo ogni tipo di intervento che non sia legittimato dal suo preventivo consenso libero e informato. Perché il rispetto dell’autonomia della persona è l’unica bussola capace di dare risposte dove l’impianto “proibizionista” fallisce: estendere il consenso della persona, come regola della vita, all’intera esistenza, compreso il processo del morire, e divenire elemento di organizzazione sociale e di regolazione giuridica positiva.

La strada da percorrere è quella di documenti scritti, “direttive anticipate” o “desideri precedentemente espressi”, che orientano le decisioni sul futuro, perché questo fa sì che l’interessato non sia mai escluso dal circuito decisionale sulla sua vita e sul suo morire, che, invece, è spesso lasciato alla deontologia professionale del medico (norma quanto mai incerta di fronte, appunto, ai cambiamenti scientifici, tecnologici e antropologici cui stiamo assistendo) o, peggio, alla pesante responsabilità dei parenti.
Solo la dichiarazione anticipata di volontà, inoltre, può rispondere a domande che altrimenti non possono trovare risposta soddisfacente in una legge fondata sui divieti, quali: si può desumere da precedenti comportamenti una volontà che non è stata espressa attraverso forme standard o scritte? Chi può o deve esprimersi, testimoniando la volontà di questa persona? Quali sono i trattamenti per i quali è ammissibile il rifiuto? Inoltre, le dichiarazioni anticipate di volontà possono ben convivere con altri moduli espressivi della volontà, fornendo criteri per la valutazione della congruità di comportamenti non formalizzati rispetto al fine che si propongono.

In fondo, il cd. testamento biologico di questo tratta: non obbliga affatto i cittadini a seguire regole rigide e astratte, piuttosto permette ad ogni persona – quando è nel pieno delle sue facoltà mentali – di lasciare indicazioni scritte su come vorrà essere trattata e assistita se un giorno, in balia dei macchinari e senza speranza di recuperare le proprie facoltà intellettive, non sarà più in grado di decidere per se stessa. In esso la persona, in piena autonomia e coscienza, esprime la propria libera volontà circa le terapie e i trattamenti sanitari cui desidera, o non desidera, essere sottoposta nell’eventualità dovesse perdere irrimediabilmente la capacità di esprimersi e comprendere. Inoltre, si esprime circa il principio di proporzionalità tra l’intervento medico e il beneficio per il paziente, perché la dignità della persona (principio costituzionale) che si pone a presidio della qualità della vita, è lì ad evitare che un intervento medico eccessivo, invece di alleviare la sofferenza, renda il paziente prigioniero della stessa medicalizzazione (che è appunto la condizione in cui potrebbe venirsi a trovare Michele Gesualdi). E chi può stabilire questo difficile equilibrio se non la stessa persona che dovrà sopportarne le conseguenze?

Ecco, infine, di cosa parliamo con questa legge sul testamento biologico: niente di meno che le condizioni di autonomia, di dignità e di libertà della persona. Ecco perché sarebbe gravemente irresponsabile da parte del legislatore, che è chiamato a dare attuazione ai principi costituzionali, se la questione fosse sottovalutata rinviandone l’approvazione sine die o anche alla prossima legislatura.

Foto di copertina: Sandra, la figlia di Michele Gesualdi ospitedi Fabio Fazio a Che tempo che fa dove ha parlato del testamento biologico per chi soffre

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