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La precarietà del lavoro come dato strutturale

Di precariato si muore“, è il titolo dato da Marta Fana al Prologo del suo bel libro “Non è lavoro, è sfruttamento“: un testo la cui lettura è imprescindibile per chi voglia capire quale sia il reale contesto nel quale vivono ormai già due generazioni (ne ha fatto una pregevole quanto agile recensione su “L’ArgineMassimo Misiti, il 4 Novembre scorso; altre sono reperibili in Rete). Ma la ragione di queste note non è quel libro, bensì un altro lavoro di indagine sociologica, anch’esso di grande qualità, che si concentra su una specifica forma della “precarietà”, quella costituita dagli “stage“, che conoscono una “irresistibile ascesa” e rappresentano una «specifica forma di svalorizzazione e precarizzazione del lavoro».

«Nel contesto dell’economia di mercato capitalistica, la precarietà del lavoro è un dato strutturale, costitutivo dei rapporti di lavoro». Questo “statement” – dichiarazione lapidaria, che sintetizza tutto quello che segue – apre il saggio di Rossana Cillo intitolato “Le ultime frontiere della precarietà“, che costituisce l’introduzione di un volume collettaneo di ampio respiro, intitolato “Nuove frontiere della precarietà del lavoro” (con sottotitolo  Stage, tirocini e lavoro degli studenti universitari“): un volume corposo, di ben 296 pagine, edito nell’Aprile 2017 dall’Università Ca’ Foscari di Venezia  e che (udite udite!) è accessibile, e da lì scaricabile gratuitamente, al sito http://edizionicafoscari.unive.it/libri/978-88-6969-160-7/.

Rossana Cillo svolge attività di ricercatrice nel Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali dell’Università i di Venezia, dove si è laureata nel 2004 con una tesi sul colonialismo europeo e le donne nel mondo arabo. Ha scritto, fin dalla sua laurea, molti saggi sempre riguardanti il tema del lavoro o dell’immigrazione (riportati al sito dell’Università, http://www.unive.it/data/persone/5593500/pubb_anno): è quindi una persona inserita in un contesto culturalmente prestigioso e che garantisce, sul piano personale, serietà e competenza.

Nella foto: Nuove frontiere della precarietà del lavoro, di Rossana Cillo, edizione Universirtà Ca Foscari, Venezia

Nella richiamata introduzione la curatrice del volume, che è anche autrice o co-autrice di alcuni dei saggi che vi compaiono, espone e sviluppa quella tesi già citata – della precarietà del lavoro come “dato strutturale” – che, benché non nuova, è opportunamente richiamata e poi argomentata in modo sintetico quanto elegante. Questa condizione – che secondo l’Autrice è permanente, nella storia dei lavoratori salariati, cioè di coloro che sono «costretti a vendere la propria forza-lavoro a chi detiene i mezzi di produzione in cambio di un salario che dovrebbe consentire loro di acquistare i beni necessari al proprio sostentamento» – è risultata (fortunatamente) un po’ sbiadita nel periodo che va dalla fine della seconda guerra mondiale fino alla metà degli anni Settanta del Novecento – un tempo spesso definito “i trenta gloriosi“, che Giorgio Ruffolo ha definito “il più lungo periodo di crescita e di emancipazione sociale………….un’epoca per molti versi ‘aurea’, anche se non mancarono conflitti, che furono talvolta molto aspri, ma ne scaturì prosperità, maggiore uguaglianza e benessere sociale” -, nel quale sembravano affermarsi, potremmo dire sperando di non disturbare troppo il sommo Leopardi, “magnifiche sorti e progressive” destinate a durare per sempre: quella situazione era invece del tutto eccezionale e dovuta ad un concorso di condizioni favorevoli – «a una particolare congiuntura», come dice Cillo, spiegandola in poche ed efficaci “pennellate” – non ripetibili e dalla prospettiva inevitabilmente limitata, ed infatti ad essa seguì una «controffensiva senza precedenti delle classi dominanti» (denominata, sulla scia di Ruffolo, ”la controffensiva capitalistica”) che «è ancora oggi in corso…Sicché dopo un trentennio di relativa stabilità degli impieghi dei lavoratori salariati nell’industria, che ha fatto parlare, in maniera più o meno appropriata, di ‘impieghi a vita’, è in atto da quattro decenni un processo di precarizzazione strutturale del lavoro». Questo processo possiede, e l’autrice ne fa una descrizione concisa e precisa, da un lato delle modalità e dall’altro una serie di conseguenze, il cui risultato complessivo, per certi versi clamoroso e sicuramente inaspettato da chi si è formato nel “periodo d’oro” di cui si è detto, è che «i giovani cresciuti negli anni della crisi rischiano seriamente di arrivare all’età adulta più poveri dei propri genitori [con una] maggiore esposizione al rischio dell’impoverimento, o all’impoverimento vero e proprio». A questo conduce quella che Cillo presenta come «una sequela di nuove forme di precarietà istituzionalizzata che è sinonimo di impoverimento e di umiliazione dei giovani […che] sono stati un target privilegiato delle politiche neo-liberiste» e che costituiscono «la fascia della popolazione che è più esposta al rischio di trovare solo lavori ‘flessibili’ e di dover pagare sul piano personale familiare i costi più gravosi, più estesi e più duraturi della precarietà».

 

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