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L’Abruzzo va a destra, ma il voto fornisce indicazioni al centro sinistra su come uscire dall’angolo

Un’analisi a caldo di un risultato elettorale è sempre la cosa più complicata – e spesso anche dolorosa – da fare.

Le elezioni regionali abruzzesi della scorsa domenica 10 febbraio ci restituiscono il quadro di una regione che sposta fortemente a destra il baricentro del proprio asse politico con la vittoria di un candidato presidente, il romano Marco Marsilio, di Fratelli d’Italia e l’affermazione robusta della Lega di Salvini che raggiunge oltre il 27% dei consensi costituendo il gruppo consiliare più numeroso nella nuova assise regionale con ben dieci consiglieri. Il Movimento 5 Stelle subisce un tracollo rispetto alle elezioni politiche del 3 marzo 2018 – passando dal 39,8% di un anno fa al 20,2% di domenica – ma per una strana legge elettorale – pur risultando come terza coalizione riporta un numero di consiglieri regionali (ben 7) maggiore di quanti attribuiti al centrosinistra che in totale si aggiudica 6 consiglieri (5 espressione delle liste più Giovanni Legnini quale candidato Presidente arrivato secondo).

Le forze della sinistra, del centrosinistra, noi insomma, perdono ma perdono meno di quanto avremmo potuto perdere qualche mese addietro. La forza e l’autorevolezza della candidatura di Gianni Legnini hanno tenuto botta di un cinque anni di governo di centrosinistra dai toni decisamente chiaroscuri; è riuscito con generosità a mettere insieme una coalizione larga, inclusiva e plurale, dove chiunque si è sentito a casa prima che protagonista, un modello che il PD a vocazione maggioritaria prima e quello a maggioranza renziana dopo aveva messo sotto naftalina ma che non inaspettatamente, a più di un decennio dal naufragio dell’esperienza de L’Unione, riemerge come tenue ed esclusivo argine non al berlusconismo bensì ad una destra radicale che diventa cuore dell’azione di governo.

In politica non conta quel che si è smesso di essere, ma quello che si sarà domani”, scriveva Rossana Rossanda sul Manifesto il 21 febbraio 1990, a quasi trenta anni di distanza mi sembra di essere inesorabilmente condannati a discutere – nella migliore delle ipotesi – di ciò che è stata la sinistra, tanto nazionalmente quanto localmente, di quali forme abbia assunto, di quali soggetti sociali di riferimento abbia avuto e di quanto abbia contribuito al consolidamento democratico della nostra giovane Repubblica, al miglioramento delle condizioni materiali di vita di due generazione di lavoratrici e lavoratori, a trasformare radicalmente le nostre vite, smontando un mondo dove la vita di ciascuno era predeterminata alla nascita consentendo ad ognuno di provare ad immaginare e costruire il proprio futuro.

Una grande storia, inesorabilmente alle nostre spalle.

Le elezioni politiche del 4 marzo 2018 e le elezioni regionali abruzzesi hanno dato alla luce, dopo un decennio di lenta gestazione, una storia nuova.

Quella di un paese cambiato. Fuori dai riti – oramai minoritari del comune sentire – della sinistra che ha smesso di essere ciò che era e non ancora è quella di domani c’è un paese nuovo: il mondo del lavoro che è cambiato, composto da precari, lavoratori a bassa scolarizzazione che si arrabattono insieme a lavoratori ad altissima scolarizzazione cui il blocco dell’ascensore sociale comprime ogni speranza di miglioramento delle proprie condizioni materiali, costringendoli a competere per quattro spicci e senza garanzia alcuna. Un pezzo di paese, ampiamente maggioritario, che cova rabbia contro l’altro pezzo di paese che l’ha letteralmente abbandonato al proprio destino, fregandosene del dolore vivo che la crisi economica infliggeva ed infligge a chi era rimasto fuori dal, sempre più ristretto, cerchio dei garantiti.

Un pezzo che ha sancito, così come conferma l’analisi dei flussi elettorali sia nazionali sia locali, la vittoria di forze politiche nazionalpopuliste, costringendo la sinistra ed il centrosinistra all’angolo come mai avvenuto nella storia repubblicana.

Usciamo dall’angolo. Facciamolo qui ed ora, immaginando e costruendo uno spazio che sappia incrociare strade, interloquire e riscostruire una connessione sostanziale con chi ha affidato alla paura ed al rancore la propria disperata necessità di trasformazione.

Facciamolo immaginando e costruendo uno spazio che – a partire da una concreta analisi delle criticità che abbiamo di fronte – coltivi l’ambizione di seminare percorsi di trasformazione.

Facciamolo donandoci una prospettiva praticabile, magari a partire dalle prossime elezioni europee ed amministrative del prossimo maggio.

Un percorso partecipato ed ospitale, dalle porte e dalle finestre aperte, a metà strada tra un barcamp ed un comitato di quartiere, aperto alle associazioni ed al mondo sindacale, pragmatico nella visione e innovativo nei contenuti, al quale chiunque possa donare le proprie competenze nel tentativo di distinguere – parafrasando Aldo Moro – il buongoverno dal governo utile.

Un percorso che proprio nell’ottica del governo utile sappia costruire la trama di un intreccio resistente tra le forze politiche della sinistra e del centrosinistra, contaminando e contaminandosi, lanciando la costruzione di un campo largo caratterizzato da quell’eresia che Filippo Turati – un riformista di quelli con la barba lunga e lo sguardo direttamente proporzionale alla barba – definiva “forza salvatrice e rinnovatrice“.

Adesso è il tempo, prima che lo scoramento di trasformi in rotta, abbiamo ancora il dovere di essere felici.

Foto in evidenza: L’Auditorium Petruzzi del Museo delle Genti d’Abruzzo di Pescara, la sede scelta dalla coalizione di Giovanni Legnini  per la lunga maratona elettorale

Nicola Maiale nasce a Vasto (CH) nel 1979. Pescarese d’adozione, è laureato in Scienze Politiche presso l’Università “La Sapienza” di Roma. Si interessa dei fenomeni correlati alla violenza politica e alle culture conflittuali. E’ autore del libro In fiamme. Violenza politica in Italia dalla Belle èpoque alla marcia su Roma (Gog edizioni)

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