Lo so che la storia secondo cui l’8 marzo è diventato il giorno della Festa della donna per ricordare la morte di centinaia di operaie nel rogo di una fabbrica di camicie, che sarebbe avvenuto nel 1908 a New York, è una bufala. Lo so. Però questa leggenda, che semplifica una storia più lunga e complessa, ha avuto successo non a caso nella memoria collettiva e quindi me ne servo di nuovo. Per ripartire dal senso, forse non originario ma sicuramente rilevante, che questa ricorrenza ha avuto e a mio parere ha ancora: quello del lavoro.
Delle tante vicende che in questi mesi la cronaca ha raccontato me ne vengono in mente alcune che sono diverse da quelle, certo altrettanto drammatiche e inaccettabili, del femminicidio. Quella di Paola, bracciante stroncata da un infarto mentre si sfiancava nelle campagne di Andria. La sua morte mi ha ricordato quella, altrettanto drammatica ma meno ricordata, di Isabella, giovane madre di quattro figli morta alle sei e mezza di un mattino del novembre 2012 su una panca della metro A di Roma, anche lei per infarto, anche lei per stanchezza. Proprio in queste ore, a Prato, si indaga sulla morte di una donna cinese in un capannone del Macrolotto. Anche lei, forse, vittima delle inumani condizioni di lavoro.
Ma senza scomodare i cadaveri, il pensiero corre alle commesse dei negozi dei centri commerciali, che da agosto non hanno avuto una che sia una domenica di riposo. Sempre al lavoro, sempre in piedi, sotto le luci artificiali e la musica che rimbomba, come in nessuna altra parte d’Europa accade. Corre alle lavoratrici della grande distribuzione, strangolate in turni e trasferte impossibili, l’ultimo e più debole anello di una catena che si fa vanto di assicurare ai clienti prodotti a “sottocosto”, che in realtà sono una trappola mortale per decine di migliaia di lavoratori, donne e uomini.
Ma anche il mondo dell’arte e della cultura è sfregiato dalle disuguaglianze e dalla precarietà. Lo denunciano alcune donne che hanno scritto per motivare la loro adesione allo sciopero indetto per l’otto marzo da Nonunadimeno. “Il nostro è un lavoro strano – spiegano – Quando comincia? Quando s’interrompe? Come ci si astiene? Cinquanta minuti, un’ora, due, un’istallazione di tre giorni, un cameo di ventitrè secondi. Che sia su un palco, in strada, da un balcone, davanti o dietro una telecamera, con le dita su un mixer, in consolle, davanti allo schermo di un pc tessendo trame e personaggi. Quando riscaldo muscoli e voce. Siamo sempre dal vivo. Lavoriamo la sera. Lavoriamo tutto il resto del giorno. Siamo dipendenti, a collaborazione, a progetto, a gratis, partita iva, ritenuta d’acconto, al nero, lavoriamo a cachet, a forfait, 70/30, a contratto, a serata, autorganizzate, per piacere, per passione, dietro il bancone di un bar. “Per fare esperienza” o “per farci un nome”. Per rifarci le tette. E per campare. Lavoriamo a cercare lavoro. Progetti per bandi che, se vinceremo, ci indebiteranno. Scopriamo continuamente nuovi talenti, i nostri, che troppo raramente vengono riconosciuti. Dobbiamo essere under 35 anche a 50, e quando superiamo i cinquanta torniamo ad essere merce scartata dal mercato”.
L’Italia ama i riti. Uno di questi è senz’altro l’otto marzo. Un altro è l’eterno lamento sulla denatalità. Le italiane non fanno figli. E’ appena uscito il “Bilancio demografico nazionale” dell’Istat che dice: la partecipazione al lavoro femminile è pari, in Italia, al 47 per cento contro una media di circa il 60 per cento nei 28 paesi dell’Unione Europea. Peggio di noi solo la Grecia. In Germania è il 70 per cento e in Svezia si arriva al 74 per cento. In compenso le donne italiane lavorano in casa il doppio degli uomini (circa 40 ore contro 20 per settimana). Sommando il lavoro in casa e fuori, la differenza totale è di mezz’ora in più per le donne. Circa 23 giorni lavorativi di 8 ore l’anno.
“Un’enormità”, commentano Alberto Alesina e Andrea Ichino, autori della sintesi. Il demografo Massimo Livi Bacci, interrogato dal Corriere della Sera, aggiunge: “I paesi dove lavorano più donne, come in Europa del Nord, hanno una natalità più equilibrata”. Entrambi indicano una possibile misura correttiva: diverse politiche fiscali. Ma di questo, al governo.
Quanto al manifestare, si manifesta. Chi manifesta l’8 marzo in modo pacifico, soft o radicale che sia, per me va bene, tutto contribuisce e, chi vuole, confluisce. Ma senza lavoro non si va da nessuna parte. Nemmeno, e meno che mai, le donne.
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Susanna Cressati
Palmanova (Udine) 1951. Studi classici. La sera del 31 dicembre 1999, dopo 25 anni di lavoro, si chiude alle spalle la porta della redazione toscana dell’Unità e restituisce la chiave. Ricomincia da capo, cercando nuovi territori di formazione e lavoro. Insegna all’Università e alle superiori. A Toscana Notizie (l’agenzia regionale di informazione) comincia nel 2004 come cococo e finisce nel 2014 come direttore. Finisce si fa per dire.