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L’Italia di Conte e il Covid che c’è ancora e la politica sempre più incerta. Tra 40 giorni regionali e referendum

C’è poco da essere ottimisti in questa metà agosto scandita dalla pandemia, che non è ancora stata debellata, e la politica che stenta a dare un’impronta forte e decisa a quaranta giorni dal referendum per il taglio dei parlamentari.

Cominciamo dal Covid e dall’azione di contrasto messa in campo anche in questa difficile estate dal governo di Giuseppe Conte. Qui francamente bisogna dire che in Italia le cose sono andate meglio (o almeno meno peggio) che in altri Paesi al di qua e al di là dell’Atlantico. E di questo il ministro della Sanità Roberto Speranza e l’intera compagine di maggioranza, guidata dal presidente del Consiglio, possono menare ragionevole vanto. Sono state fatte scelte coraggiose nel corso delle quali i cittadini italiani hanno responsabilmente dato il meglio che potevano dare. Del tutto fuori luogo appaiono quindi le sconnesse proteste delle opposizioni che prima reclamavano di non chiudere nulla soprattutto in Lombardia e al Nord e ora se la prendono con il governo perchè è ricorso ad una quarantena che ha coinvolto tutto il territorio nazionale, e, quindi, anche le regioni del centro sud dove il virus era presente con minore intensità.
Se un rilievo si può e si deve fare a Conte è magari quello di aver usato il ricorso ai decreti del presidente del Consiglio anche in casi nei quali sarebbe stato più consono il ricorso ai decreti legge. Certamente un maggiore coinvolgimento del Parlamento (anche di questo Parlamento con tutti i limiti dei suoi componenti per lo più nominati) sarebbe stato più appropriato che le deleghe ora a un comitato Colao, ora a un commissario Arcuri.

E qui veniamo al ruolo che dovrebbero avere le nostre istituzioni politiche: In particolare il Parlamento e i partiti. Tra quaranta giorni è previsto il referendum confermativo o oppositivo che dir si voglia, nel quale gli italiani dovranno pronunciarsi sulla riduzione dei parlamentari, voluta soprattutto da un partito di maggioranza: ovvero dal movimento cinque stelle. Riduzione alla quale il Pd e altre forze di sinistra hanno votato contro per tre volte, esprimendo però nella quarta votazione un sì che ha consentito nei fatti la formazione di un governo Conte 2, senza la Lega di Salvini che reclamava i pieni poteri. Il tutto in vista di una riforma elettorale proporzionale che, tuttavia, ora i rappresentanti di una piccola formazione, Italia viva, non vuole più, rispolverando l’immagine del”sindaco d’Italia”, in nome di un “mariosegnismo” di ritorno, e di incomprensibili pulsioni maggioritarie.

Ora la vittoria dei sì nel referendum appare, alla gran parte degli osservatori, molto probabile. E su essa puntano soprattutto i grillini, in nome di quella antipolitica che li ha caratterizzati anche quando governavano in alleanza con Salvini. E in questo contesto non convince affatto il fatto che il presidente del Consiglio abbia tenuto ad affermare nei giorni scorsi il suo voto per il sì. Non c’ è dubbio comunque che la retorica del taglio del numero dei parlamentari sia stato sempre un filo conduttore di un antiparlamentarismo, ora in nome dell’uno vale uno, caro alla piattaforma Rousseau, ora di una ingenerosa campagna contro le lungaggini della politica e della complessità di una rappresentanza, che sarebbe, in molti casi, di ostacolo alla governabilità. Giustamente c’è anche da chiedersi, come ha fatto il presidente della regione Toscana, Enrico Rossi, se anche lo scandalo dei cinque parlamentari che hanno chiesto il bonus per le partite Iva non sia statosapientamente usato da Di Maio e dai cinque stelle a sostegno della campagna per il sì nel referendum taglia deputati.

E qui veniamo ancora una volta al perdurare di quel sentimento antipolitico che si traduce in antiparlamentarismo e insofferenza per i partiti (veri, vale a dire legati a una propria identità di pensiero politico) che tanti danni ha provocato all’Italia da Tangentopoli in poi. Ecco, è questo un motivo per il quale andrebbe messa in primo piano (e non lo fanno adeguatamente nè i partiti, nè i talk show, nè i giornali) la questione delle forme della politica. Le quali passano per due fondamentali strumenti: il Parlamento e, soprattutto i partiti versi. Senza l’irrobustimento di questi ultimi (indicati dalla Costituzione come lo strumento attraverso il quale i cittadini partecipano con metodo democratico alla politica) sovranismo, populismo e antipolitica continueranno ad avere la meglio. Magari profittando, come hanno fatto finora, di legge elettorali confuse e approssimative, di rilevata dubbia costituzionalità del tipo Porcellum, Italiucum e Rosatellum. A proposito con quale legge si voterebbe se il presidente Mattarella dovesse essere costretto a sciogliere la Camere? C’è da rabbrividire.

Intanto si voterà per i nuovi presidenti di Regioni. I quali sono sostenuti più che da partiti veri e tradizionali, da liste e sottoliste, che più che a identità politiche fanno capo ad accrocchi organizzativi, soprattutto di natura clientelari. Intanto si discute se sia meglio la società civile o i partiti. Mi chiedo: quali partiti, quale società civile? Nè i primi nè la seconda possono vivere e difendere per conto proprio una democrazia in fortissimo appannamento. Devono parlarsi tra loro. E se i partiti non sono in grado di intercettare sulle proprie proposte la società civile, essi sono falliti e forse non sono più partiti. Così ci insegna il pessimismo della ragione.

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