Pandemia, storia e identità di sinistra. Un contributo.
Covid 19 e storiografia. Gli studi sull’”Italia della post-emergenza”, proposte dalla rivista il Mulino (LXIX, 509), contribuiscono ad una ferma riconsiderazione dell’ “Italia come storia”. Particolarmente nel momento in cui l’Europa, in un disegno unitario, culturale prima che politico periodizza destinandoci inaspettate e significative risorse.
In questo numero la rivista mostra come storia d’Italia e storia d’Europa, etica e politica vengono ricomposte, con “mosse simmetriche e speculari” (p.498) in un orizzonte di aspettative che ha preso piede e criticamente si rafforza. La svolta della globalizzazione sembra imporre anche da noi un ricambio dei gruppi dirigenti e una transizione decisamente europea dell’ identità di sinistra. Diventano più concrete, con la pandemia, le possibilità di un rilancio economico in vista dell’equità, della coesione sociale, della sostenibilità ambientale, della stessa cittadinanza europea. Non a caso, peraltro, Benedetto Croce sosteneva che “pensare” la storia è periodizzare. Covid -19 e lockdown pongono le prospettive di intervento “nazionali” in un periodo di strettissimo e ineludibile rapporto con quelle “transnazionali”. Cfr. F. Benigno e E.I. Mineo L’Italia come storia Roma Viella 2020; J. Habermas La costellazione postnazionale Milano, Feltrinelli 2002; B. Croce, Teoria e Storia della storiografia, Napoli Bibliopolis 2007)
Un periodo di lunga durata. Ecco come si delinea il periodo della post-emergenza sulla base di ricerche avviate. “I pilastri su cui ripartire per rilanciare l’Italia”, scrive nella presentazione del fascicolo Bruno Simili, “dovranno essere profondamente ripensati in un’ottica di lungo periodo….tenendo presente innanzitutto chi dovrà abitare e vivere il nostro Paese tra vent’anni”. Per ripensare i “nostri sistemi educative”, il “nostro sistema previdenziale”, “un modello di sanità” che non si perde nelle illusioni delle deleghe al privato sarà necessario, emarginare ogni “piccolo cabotaggio politico [che]…. nel nostro Paese è tornato a dominare la scena” (pp.365-366 ).
Nel fascicolo, fa capolino in tutti gli scritti un “presente” nel quale le élites politiche dovranno farsi carico di prospettive sociali e politiche decennali. “Un nuovo modello di sviluppo” secondo Gianfranco Viesti dovrà omogeneizzare un “Paese assopito, incapace di reagire ad un lungo declino” e spingerlo, (per ricordare un linguaggio caro a Paolo Prodi) verso una modernizzazione improntata ai tratti propri della storia della civiltà europea, ma che non possono essere certo quelli “di cinquant’anni fa”. Scontando l’incertezza sanitaria e della situazione economico-sociale e politica bisognerà rilanciare il Paese, dice ancora Viesti, tenendo testa ad una crisi, fortemente selettiva “fra settori, fra lavoratori, fra territori…. fra gruppi sociali”, e nella quale, secondo lo studioso, al “secesionismo dei ricchi”, al “cosidetto regionalismo differenziato” sta facendo da eco la ” scomparsa dall’agenda della questione meridionale” (pp. 385,387,389, 391).
Periodizzare Napoli. E’ una scomparsa che si accompagna fragorosamente all’andamento drammatico della modernizzazione a Napoli (“la città più civile del mondo” secondo Elsa Morante) dove le categorie “etico-politiche” liberali, una volta gloriose, si insabbiano nelle ordinanze delle istituzioni cittadine e regionali. “Nello spicchio di città compreso tra i quartieri di Montesanto e di Montecalvario” la peculiarutà del “lockdown napoletano”, così viene riassunta da Marcello Anselmo: Il lockdown a Napoli, ci dice lo studioso, ha “cancellato migliaia di posti di lavoro che, proprio per la loro invisibilità, non rientrano in alcuna categoria di sostegno statale nè in alcuna forma di cassa integrazione…. Ha lacerato il velo di vergogna che occultava la povertà diffusa”. Nella sua esperienza di partecipazione alla brigata di mutuo soccorso Lo Sgarraputo, Anselmo ci documenta distesamente come a Montesanto, a Secondigliano, “nel Vasto, nella zona flegrea e nella periferia orientale la gemmazione di decine di attività di base, ha costretto il comune a organizzare un servizio – claudicante e approssimativo – di approvvigionamento alimentare”. Nei vicoli del “centro antico, nei Quartieri spagnoli, nella Sanità, … il proletariato marginale locale convive con i migranti, scrive, … [è] una nebulosa indistinta di lavoratori e lavoratrici sommersi che la pandemia del Covid-19 ha fatto emergere” (547-549).
Malattia e politica. Naturalmente non è solo la storia di Napoli e del meridione del “giovane Regno di Italia” ad essere segnata dalle pandemie. Tra i saggi che animano il volume, il contributo di Mario Ricciardi svolge, ancora su un piano storico, il nesso tra “malattia e politica”. L’autore mette insieme con i “ resoconti delle epidemie” i problemi che richiamavano sul tema, non solo Boccaccio e Montaigne, oppure Voltaire e Leibniz, o anche Braudel e Foucault. Ma pure Elias Canetti e Tommaso Hobbes—in quanto lettori di Tucidite (Cfr. Il ritorno del Leviatano. Paura, contagion, politica). Secondo Ricciardi, Tucidite, è una fonte di lettura di grande rilievo, perchè “a differenza del suo quasi contemporaneo Sofocle, non guarda all’epidemia come a un evento che evoca il soprannaturale”. Storico dell’epidemia che colpisce l’Atene di Pericle, “con un linguaggio che riprende la terminologia Ippocratica … indaga causa ed effetti cercando di collocarli nel contesto della città”.
Ed è in questo contesto e con questo approccio che viene posto il problema dell’”anomia” e gli atteggiamenti che minimizzano il diffondersi del Covid. Risalendo alla lettura di Tucide, Ricciardi mette l’accento sia sull’erodersi del legame sociale come effetto dal morbo e della paura del contagio sia sullo “scivolamento ulteriore nella direzione di una società capitalista della sorveglianza capillare” (Foucault). Canetti, segnala ancora Ricciardi, ragiona sugli effetti sociali delle epidemie nel capitolo di Masse e potere dedicato alla figura del sopravvissuto. Tra questi effetti lo studioso austriaco notava la tendenza di ogni paese a proteggere più la “produzione che i suoi uomini” e a supporre l’accrescimento della produzione e del consumo come tendenza che avrebbe potuto accomunare Paesi capitalisti e socialisti (pp. 369, 380, 383).
Stratificazione sociale. Il contributo di Claus Offe, (tradotto da Alessandro Cavalli) analizza “opzioni e conflitti” generati dalla pandemia. Sulla base di “modelli demografici ed epidemiologici che in questi mesi sono stati proposti” per suddividere la popolazione, l’autore osserva la stratificazione sociale che si delinea col Coronavirus in termini di rischi economici e di salute. Le conclusioni a cui giunge rapidamente riguardano soprattutto le condizioni socio-economiche più vulnerabili, deboli e precarie. Da un lato, scrive Offe, c’è “chi può, per il momento far fronte con relative facilità alle misure restrittive perchè è pensionato o gode del privilegio di lavorare da casa” con lo smart work. “Dall’altra parte, vi sono le voci di chi sostiene che la situazione sociale ed economica (sia delle famiglie con bambini in età scolare, sia dei negozianti, delle botteghe, dei ristoranti e delle aziende) è diventata insopportabile e che la chiusura stessa si è trasformata in un pericolo per la vita”. “Un numero crescente di commentatori sembra concordare sul fatto che la cura fondata su misure restrittive porti a risultati peggiori della stessa malattia”.
L’autore condivide le misure che propongono di abbandonare norme generali sostituendole con altre “specifiche e differenziate”. “L’idea, scrive, è quella di dedicare a categorie di persone, attività e luoghi ad alto rischio misure restrittive, mentre a tutti gli altri sarà consentito di tornare a modelli ‘normali’ di mobilità e attività”. Il grado di consenso alle norme, conclude lo studioso, dipenderà da “una disci-plina autoimposta, da una comprensione illuminata e da sanzioni informali, non da un’azione formale di polizia” (pp. 511,514-515).
Pandemia, stato d’emergenza e stato d’eccezione. Sulle pagine della rivista non manca la pacata discussione delle tesi filosofiche e politiche, suscitate dalla gestione della pandemia in Italia, che riportano lo stato di emergenza, dovuto al virus, alla categoria totalitaria dello stato di eccezione, teorizzato da Carl Schmitt, costituzionalista famosissimo e convinto cattolico di destra, avversario di un grande giurista liberaldemocratico, Hans Kelsen, ebreo, profugo a Berkeley. Da posizioni limpidamente democratiche, Gianfranco Pellegrino confuta tale riduzione, non solo in quanto bandiera della propaganda e della stampa reazionaria, ma anche in quanto motivo ripreso dalla sinistra radicale, con le tesi esposte emblematicamente sul ”quotidiano comunista” Il Manifesto da Giorgio Agamben.
La tesi di Pellegrino ha alla sua base un “convincimento” che ha una eco per così dire azionista. Lo stato di emergenza non è uno stato di eccezione. “Nella gestione dell’emergenza le regole e il rispetto dei diritti diventano più importanti”. I valori “che continuano a valere anche in condizione di emergenza” rendono “possibile la coordinazione sociale”. Assicurano che “diritti e libertà siano compossibili”. “Alle condizioni di emergenza, sottolinea Pellegrino, si applicano gli stessi criteri digiustificazione dell’azione governativa validi in casi normali e consueti”. “Anche nelle condizioni più estreme e di emergenza, conclude, ci sono criteri che distinguono la coercezione legittima dall’arbitrio … la giustizia e la legittimità non hanno eccezioni”. Insomma possiamo affermare con lui che “lo stato di eccezione non esiste”(pp. 501- 504).
Humanities. A chiusura del fascicolo, documentano il periodo del coronavirus testimonianze e riflessioni di carattere schiettamente letterario. Informati e avvertiti poligrafi ragguagliano del sentire sociale, dipanano motivi di elaborazioni dai libri di Annamaria Ortese (Silenzio a Milano), di Stefan Zweig ( Il mondo di ieri ); ci parlano, con sottile autoironia, come nei romanzi accademici americani, delle aspettative e dei vissuti dei prof.
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Foto in evidenza: rielaborata da originale Jacobin Italia (IPTC Photo Metadata).