La sconfitta referendaria è come il fondo di un caffè. Svela l’oroscopo del renzismo. Quale occasione migliore, dunque, per raccontarne le due o tre cose che abbiamo capito? Storicizzare Renzi, si disse, per comprenderlo. Ed è così che sul fare della sera la sua realtà si tinge di chiaro e di scuro.
Per capire Renzi, bisogna anzitutto dissezionare la Leopolda. All’origine, essa fu una spinta vitalistica al rinnovamento della classe dirigente e della forma del partito. Era, prima di tutto, un programma. La Leopolda crebbe e divenne conquista del potere. La rivoluzione che si annunciò come moderata e di popolo divenne gradualmente patto delle élite e delle oligarchie. Rinnovamento sì, ma nel solco della cooptazione e della assimilazione di uomini nuovi a vecchi vizi italici. Così, il programma massimo della Leopolda assunse come suoi nemici di classe gerontocrazia e burocrazia. Scomparve del tutto la questione sociale, quella del divario nord-sud e delle diseguaglianze. E giù dunque con le litanie dello Sblocca Italia e del referendum contro la casta. In questa torsione, il cesarismo renziano da fenomeno progressivo divenne fenomeno reazionario, da rivoluzione di popolo rivoluzione passiva. La mescola diede vita a un singolare intreccio tra liberismo e familismo. E quindi: riduzione del costo del lavoro, tolleranza dell’evasione fiscale e una spesa pubblica tutta spinta verso le famiglie e il terzo settore. Il tutto dominato dalle scadenze elettorali. Michele Prospero ha definito sapientemente questa nuova prassi democristiana ‘laurenzismo’, formula efficace per descrivere la fabbrica di un consenso scritto sull’acqua.
Per alcuni mesi, nella Firenze ‘laurenziana’, l’armonia regnò lieta come in una novella di Boccaccio. E mentre nel mondo infuriava la peste, sulle colline fiorentine pareva spirare un’eterna aria di primavera. Ma il tarlo avrebbe cominciato rapidamente a scavare sino a corrodere quel fragile cristallo. Le amministrative dello scorso giugno svelarono le crepe insanabili. Fratture geografiche e sociali che si sono riproposte con prepotenza anche nel voto referendario. L’ultimo rapporto del CENSIS è molto utile, assieme alle analisi dell’Istituto Cattaneo dei primi flussi elettorali, per classificare la crisi del renzismo come crisi complessiva del Partito Democratico e per descrivere l’esaurimento ciclico della rivoluzione moderata da esso incarnato. La prima frattura che ha operato prepotentemente è quella tra centro e periferia, che ha visto un PD ridotto alle aree a benessere maturo e ad alto reddito procapite e quasi inconsistente nelle periferie e nelle borgate popolari delle grandi aree metropolitane. L’altra frattura di tipo geografico, e anche sociale, è quella tra nord e sud, che ripropone con intensità la questione meridionale come questione cruciale del Partito. La terza frattura, infine, è quella tra il corpo politico e il corpo sociale: il corpo politico in una drammatica crisi della rappresentanza non è più un significante del corpo sociale, che cessa dunque di essere un referente, ma è un soggetto isolato e autoriferito. Queste tre grandi fratture attraversano il Paese e il Partito Democratico. L’Istituto Cattaneo ha rilevato uno sfaldamento della base elettorale del Partito nel centro e nel sud: più si va a sud, più l’elettorato del PD, per circa il 50%, slitta verso il NO; e più si va verso il centro-nord, più l’elettorato forzista slitta verso il SI.
Il Partito della Nazione è un partito moderato e ritagliato addosso a una minoranza sociale di privilegiati. Fuori resta il grande mare della società in tumulto. O il PD, e dunque il prossimo congresso, affronterà questi problemi cruciali, mettendo radici in queste fratture e proponendosi come soggetto che le affronta e le accoglie dentro di sé in modo razionale, o è scontato che il Paese finirà nelle braccia dei Cinque Stelle.