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Socialismo e sinistra. Le istanze prima delle etichette

Come far ripartire un dibattito interno al campo progressista, si è chiesto Lorenzo De Sio l’11 gennaio su Repubblica? Un dibattito per ora flebile, attento solo al tatticismo, incapace di affrontare le attuali debolezze della sinistra e ancor meno di coinvolgere suoi elettori. L’auspicio è che il dibattito mancante si sviluppi lungo la strada che va alle primarie, ma il timore di De Sio è che si rimanga ancorati a categorie esautorate dalla storia: da un lato il neoblairismo fuori tempo massimo di Renzi, e il suo progetto di Partito della Nazione, e dall’altra l’opzione socialista incarnata da Rossi.

Sull’ex premier non dirò, ritrovandomi nelle parole del professore, ma qualcosa vorrei aggiungere sul progetto di Rossi. Al governatore della Toscana, De Sio rimprovera di portare avanti un’opzione concreta, cui peraltro riconosce proposte condivisibili, ma tradizionale, più attenta a limitare i danni che a ribaltare i paradigmi correnti, e inoltre lontana dal modello di «imprenditore politico» capace di costruire nuovi e inediti pacchetti di temi, come hanno fatto Grillo o Farage, Trump o Tzipras.

Tralasciando il linguaggio del marketing politico, non mi pare che il nuovismo fine a se stesso costituisca automaticamente un bene per la sinistra, come mostrato dall’esperienza renziana, che quell’idea incarna al massimo grado. Aggiungo anche che tra i compiti storici della sinistra attuale, come ha recentemente ricordato il filosofo americano Michael Walzer su Dissent, deve esservi, e senza alcuna vergogna, anche una componente difensiva: difesa dei più deboli, di una sanità che possa essere efficiente ed equa verso tutti, difesa del paesaggio. Si può del resto obiettare che non di solo Trump è fatto il mondo (anche se bisogna farci i conti), ma che insospettabile vitalità hanno mostrato le capacità identitarie e aggregative – aggregative perché identitarie – di Corbyn e soprattutto di Sanders. In una fase di persistente crisi e mutamenti epocali, l’idea di un centro moderato da attrarre elettoralmente annacquando le proprie idealità, si sfalda sempre di più – se mai ha avuto senso quest’opzione– e la capacità di riunire elettorati diversi risiede invece nelle riconoscibilità della proposta e nel suo radicalismo: il fenomeno che Habermas ha chiamato «polarizzazione democratica» su cui si è soffermata Laura Pennacch qualche giorno fa sul Manifesto .

Non è un caso allora che, sia in Italia sia all’estero, sono sempre di più i giovani che, con formule ed esiti diversi, si riappropriano di quella formula (dalla rivista americana Jacobin a Owen Jones, il popolarissimo columnist inglese trentenne); e il successo alle primarie francesi di Benoît Hamon è un ennesimo segnale in questa direzione.
Non si tratta, non deve trattarsi, di tatticismi e formule. Nelle ultime settimane abbiamo appreso che 8 uomini hanno la stessa ricchezza della metà degli abitanti del pianeta; diversi reports segnalano che nei prossimi anni più della metà degli attuali posti di lavoro saranno a rischio, per il combinato di automazione e globalizzazione. Da questo punto di vista, l’attenzione al lavoro e alle diseguaglianze, ai più deboli e al ceto medio impaurito perché impoverito, a una maggiore giustizia sociale – in sintesi una prospettiva socialista – non va dismessa come un rottame del passato. Contano le istanze, non le etichette (e negli ultimi venti anni l’affannosa ricerca delle seconde ha seppellito le prime).

Rimane certo il nodo di come affrontare gli effetti del ciclo storico in cui viviamo, che non si rimette a posto tirando d’improvviso il freno a mano, suonando il clacson contro gli altri autisti o urlando dal finestrino una parola d’ordine. Il rapporto Oxfam, che ci ha consegnato l’immagine di questi 8 ipermiliardari, letto dalla coda ci ricorda anche che la povertà globale complessiva diminuisce, e anche questo andrà messo in conto. Per tornare, invece, alle vicende politiche del cortile di casa nostra non si può, per altri versi, dimenticare la batosta delle ultime elezioni politiche, che ha chiarito l’improponibilità dei vecchi modelli del centrosinistra. Ma dovrà essere la consapevolezza della crisi del rapporto tra capitalismo e democrazia (che Rossi mostra di avere e Renzi no) la base per immaginare le formule nuove che coniughino equità e sviluppo.

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