BenedettoPetrone

C’era un ragazzo che come me …

La mia età ha un difetto e un vantaggio. Il difetto è l’età stessa, il vantaggio sta nel fatto che, come diceva Fabrizio Bentivoglio in “Marrakech Express”, la mia è l’ultima generazione ad avere ricordi in bianco e nero. Ricordi bellissimi ma, in alcuni casi, drammatici. Drammatici come quella domenica di quaranta anni fa. Erano più o meno le 20:30 del 28 novembre 1977 a Bari e nei pressi di piazza della Prefettura un gruppo di una ventina di neofascisti, militanti del MSI e del Fronte della Gioventù, individuano quattro ragazzi che militavano nell’organizzazione giovanile comunista e si dirigono minacciosi verso di loro, sono armati di bastoni e catene. I quattro tentano la fuga ma uno di loro ha difficoltà di deambulazione, a causa di una poliomielite che lo ha colpito da bambino e che lunghissime cure gli permettono di camminare appena. Lo raggiungono, lo massacrano di botte e lo colpiscono con una coltellata all’addome. Quel ragazzo si chiamava Benedetto Petrone, un ragazzo di Bari Vecchia, lavorava come facchino ai mercati generali perché la sua poverissima famiglia non poteva permettersi di mantenerlo agli studi, morirà qualche ora dopo. Aveva solo 18 anni.

Chi scrive all’epoca ne aveva solo 15 e viveva in una enclave rassicurante sotto questo punto di vista. A Cerignola i fascisti si limitavano a far politica nella loro sede e solo in una scuola erano riusciti a far eleggere un proprio rappresentante d’istituto. I comizi erano “concessi” solo ad esponenti locali e quando tentarono di indire una manifestazione con Giorgio Almirante, la piazza fu occupata da militanti del PCI e Questura e Prefetto pensarono bene che non fosse il caso. Ho ricordi in bianco e nero di quei giorni, compresa la coloratissima (di rosso) manifestazione indetta dalle organizzazioni sindacali, dalle associazioni antifasciste, dai partiti di sinistra, che qualche giorno dopo si tenne a Bari. Non c’era il sole quel giorno, c’era un freddo inusuale per le nostre latitudini ed era la prima manifestazione a cui partecipavo. Lo sgomento, l’emozione, la commozione avevano ceduto spazio alla rabbia. La polizia, durante tutto il percorso, aveva sbarrato tutti gli accessi laterali. Il pericolo della vendetta c’era ma, in realtà, nulla sarebbe potuto succedere: le sezioni del MSI, si seppe poi, erano vuote e non un fascista era possibile avvistare, neppure pagandolo.

Erano anni complicati, nel 1973 c’era stato il colpo di stato in Cile con l’uccisione del Presidente Salvator Allende. Fu una vicenda che da un lato aveva scosso profondamente tutte le forze democratiche, e dall’altro aveva galvanizzato le forze reazionarie che credevano ancora possibile una deriva autoritaria nel nostro Paese. In quel contesto maturò l’idea e la strategia del “Compromesso storico”, che avrebbe dovuto avere come fine quello di rafforzare la nostra democrazia che si svelava ancora fragile. Qualche mese dopo l’assassinio di Benedetto Petrone, il rapimento di Aldo Moro. Altri ricordi in bianco e nero, altre manifestazioni che testimoniavano la determinazione a reagire ad eventi drammatici. Arriveranno, poco dopo, anche momenti coloratissimi come quelli del movimento per la pace, contro i missili a Comiso e per chiedere il disarmo nucleare. La capacità dei grandi partiti di massa di mobilitare un numero straordinario di individui era notevole. C’era in tutti, soprattutto nei giovani, la consapevolezza del ruolo di “educatori” che quei partiti e quegli uomini che a quei partiti avevano dedicato, e dedicavano, la loro vita anche al prezzo di sacrifici non indifferenti (lo stipendio di un funzionario di partito, a cui veniva applicato il contratto dei metalmeccanici, non tutti i mesi era garantito) avevano. Venivano riconosciuti come dirigenti, e in quanto tali rispettati, non per liturgia ma perché si comunemente si riconosceva che erano il risultato di una rigorosa selezione e formazione. Non c’era il pacchetto di tessere che garantisse la carriera politica, non c’erano primarie farlocche che individuassero leader senza storia e senza competenze. Ci fidavamo dei nostri dirigenti semplicemente perché avevano meritato la nostra fiducia, il nostro rispetto. Il mio, come quello di Benedetto.

Nella foto: Manifestazione in ricordo di Benedetto Petrone

In questi giorni abbiamo celebrato le assemblee provinciali unitarie per eleggere i delegati all’appuntamento nazionale del 3 dicembre. Ho rivisto tanti compagni e le immagini si sono trasformate di colpo in bianco e nero. Di nuovo. O meglio, c’era tanto grigio. Per quelli che hanno avuto la ventura di avere ancora capelli. Pochissimi giovani. Non è certo un problema solo nostro. La “Leopolda 8”, quella dedicata ai millenials, è andata anche peggio. Quattro, cinque ragazzi nati a cavallo tra il secolo breve e questo, ma la platea occupata per la maggior parte da cinquantenials, se non sessantenials. I giovani si fidano poco di Renzi? Anche. Come, però, si fidano ancora poco di me, di Bersani, di D’Alema, ecc.
I partiti, i movimenti, non attraggono più i giovani. La gran parte dei giovani sembra poco interessata e poco sensibile ai temi della politica. Eppure pericolo neofascista, come quello nucleare, sono di nuovo attuali come quaranta anni fa. Mica c’è solo Ostia o Kim Jong-un. Ci sono intere periferie in cui Casa Pound è egemone e dove un rom o un immigrato rischiano quotidianamente l’incolumità fisica. Ci sono pericolosi rigurgiti antisemiti in gran parte dell’Europa. Ci sono guerre e massacri in così tante parti del mondo, che la guerra del Vietnam in confronto fu un ballo di gala.
Nessuno si mobilita, nessuno chiama alla mobilitazione. Non ci sono più educatori. L’orizzonte, per molti, è la soddisfazione delle proprie ambizioni personali, anche in politica. Sono gli assetti di potere, il ricoprire un ruolo istituzionale, a qualsiasi livello, a rappresentare uno status sociale. Esattamente come Steve Jobs riteneva lo rappresentasse il possesso di un I Phone.
La politica ha perso la fiducia delle giovani generazioni.

Credo che sia un aspetto su cui interrogarsi seriamente a partire dal 3 dicembre. Sono milioni i cittadini che dovremo andare a recuperare dal bosco, per restare all’interno di una metafora bersaniana. La maggior parte di essi sono giovani. Se non sapremo dare l’evidenza di un nuovo soggetto politico che della selezione e formazione di una nuova classe dirigente ne fa il proprio tratto distintivo e fondante, che assume, per superarlo, il conflitto generazionale, non credo che ci sarà alcun futuro. Anche il primo passo che ci attende, la formazione di liste unitarie, dovrà dare il senso di questa discontinuità, per non correre il rischio di affrontare una campagna elettorale ove anziché far avanzare le nostre proposte, dovremo innanzitutto preoccuparci di difenderci da tutti coloro che vorranno vederci, magari anche in mala fede, come una classe politica autoreferenziale e che cerca di sopravvivere a se stessa.
Il 3 dicembre sarò a Roma e per la prima volta, dopo anni di lontananza politica, sarò ad una manifestazione con mio figlio. Vorrei che tornasse a fidarsi di me.

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