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Correnti, partiti, alleanze e l’incognita della legge elettorale

Il Governo Draghi e la sua complessa, e forse troppo ampia maggioranza, saranno in grado di portare il Paese alla scadenza della Legislatura, magari facendolo nel frattempo uscire dalla lunga e drammatica pandemia? E’ auspicabile, forse possibile e, con molto ottimismo, quasi probabile. Ma intanto il sistema politico, e quindi i partiti o meglio quelli che si ritengono e dovrebbero essere tali, sono pronti a riprendere il proprio ruolo, anche in vista del prossimo passaggio elettorale di fine legislatura?

Probabilmente il secondo interrogativo è altrettanto importante del primo. Ma se il Governo, sia pure tra molte e non insignificanti difficoltà, sta provando a definire una strada per portare il Paese fuori della pandemia e dei danni economici conseguenti, più titubante e incerto, procede il confronto, nelle e tra le forze politiche, su quello che dovranno e vorranno essere per affrontare al meglio le prossime, e non tanto lontane elezioni politiche. E naturalmente altrettanto incerto è da quale legge elettorale queste saranno regolate.

E allora andiamo con ordine. Cominciamo dai partiti, dalle correnti che li caratterizzano e dalle possibili alleanze che potrebbero contrarre. In questi giorni, soprattutto dopo le dimissioni di Zingaretti e l’arrivo di Letta alla segreteria del Pd, si parla molto delle correnti interne, che a giudizio di osservatori alquanto conformisti, sono state e continuano ad essere la rovina dei partiti, in particolare di quelli che hanno caratterizzato la storia del centrosinistra, non soltanto nella cosiddetta prima Repubblica.

Non sono d’accordo con questa lettura, giustamente messa in discussione da un politologo autorevole come Piero Ignazi per il quale le correnti non vanno affatto considerate come “un limite alla vita di un partito” visto che in “ogni aggregato umano quasi mai regna la concordia universale“. Nello stesso articolo su “Domani” di sabato scorso il politologo aggiunge: “Senza correnti domina il conformismo, e il cervello collettivo del partito si appiattisce“. Il problema , conclude Ignazi, é “evitare che le correnti si riducano a cordate di postulanti“.

E qui, facendo solo pochi esempi vale la pena ricordare che nella prima repubblica la Base e persino i dorotei nella Dc, gli autonomisti e i lombardiani tra i socialisti, i miglioristi e gli ingraiani nel Pci, furono prima di tutto luoghi di elaborazione politica, che giovarono ai rispettivi partiti.

Lo stesso non si può dire per i ripetuti e recenti scontri nei cinque stelle e altrove, Pd e forze di sinistra comprese. In questi casi più di una volta le correnti (ammesso le si possano chiamare così) servono soprattutto a rivendicare ruoli e posti e comunque posizioni di potere, rispondendo il più delle volte alla domanda “chi mandiamo lì“, piuttosto che su “cosa dobbiamo fare su questa vicenda“. Questo stato di cose non giova nè alle correnti nè ai rispettivi partiti. E poco conta se queste scelte (chi mandiamo?) si prendano sulla base di votazioni su piattaforme web o primarie fai da te, spesso improvvisate e mal gestite. Tutto questo porta a un indebolimento della credibilità della politica nel suo complesso e chiedersi se sia colpa più delle correnti o dei partiti è come riproporre l’inutile interrogativo su chi sia nato prima tra l’uovo e la gallina.

Ma veniamo all’oggi e alla prospettiva delle elezioni di fine legislatura. Soprattutto nella sinistra ci si interroga su come dovrà essere organizzata la probabile alleanza con il movimento Cinque stelle. Che per qualcuno potrebbe e dovrebbe ispirarsi a quello che, ai tempi era stato l’Ulivo. “Vasto programma“, avrebbe detto il generale De Gaulle. Ma in quel caso sarebbe forse opportuno considerare anche gli errori che furono commessi in quei tempi. Certo il massimalismo di una certa sinistra (Bertinotti e non solo) non giovò all’alleanza, ma siamo sicuri che non fu un grave errore politico provare a mettere quell’alleanza al di sopra degli interessi (politici naturalmente) dei partiti che la componevano. E in fondo il riproporre una vocazione maggioritaria del maggior partito (il Pd) non ebbe proprio il risultato di mandare a gambe all’aria l’alleanza medesima?

Per questo, che Nenni chiamerebbe “la lezione delle cose“, non mi convincono affatto gli entusiasmi maggioritari e l’antiproporzionalismo (questo sì di principio e ai limiti dell’ideologico) che molti ripropongono in vista di un’alleanza politica nella quale la proporzionale potrebbe rafforzare i contraenti e quindi l’alleanza nel suo compresso. Ha scritto giustamente Paolo Franchi sul “Corriere della sera” del 15 aprile che “non è scritto nelle stelle che il bipolarismo maggioritario sia una sorta di panacea universale“, concludendo che se il nostro bipolarismo è rimasto “tanto selvatico quanto inconcludente sino alla sua fine ingloriosa, qualche motivo di ordine storico-politico dovrà pur esserci“.

Insomma, l’alleanza con i Cinque stelle è, a mio giudizio, un tentativo che il centrosinistra (direi meglio: la sinistra democratica e il suo e i suoi partiti) hanno il diritto e il dovere di cercare di realizzare. E il concretismo pragmatico del proporzionale può essere utile, anche se non necessariamente esaustivo. Affidarsi a vecchie e ripetute illusioni maggioritarie che non hanno mai funzionato in Italia, nè a destra nè a sinistra, potrebbe portare a un ennesimo fallimento. Senza dimenticare che per una alleanza che funzioni bisogna misurare bene i rapporti di forza. Rapporti di forza che non si misurano a colpi di sondaggi, magari affidati alla piattaforma Rousseau o altre scorciatoie, digitali e non.

Foto in evidenza: Palazzo Chigi

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