E’ un periodo davvero complicato e non lo è solo in Italia. Ovunque si volge lo sguardo non c’è nulla che dia serenità, speranza. Posto che non è possibile una migrazione di massa verso Spagna e Portogallo di tutti gli uomini e le donne di buna volontà, occorre interrogarsi seriamente, senza infingimenti, senza pensare che per il momento scavalliamo le prossime elezioni europee e poi si vedrà, su cause e possibili rimedi, ammesso che ci siano. E, comunque, rassegniamoci: eventuali rimedi non si intravedono nel beve periodo, causa ottusità e autoreferenzialità della classe politica, soprattutto a sinistra.
Perché, se siamo al punto in cui siamo, è colpa nostra.
Limitiamoci al nostro Paese e alla sua più o meno recente storia politica.
La sinistra, i partiti storici che la rappresentavano PCI e PSI, avevano previsto tutto già dall’inizio degli anni ’80. Mentre i socialisti in un convegno a Rimini lanciavano la loro ambiziosa idea di Riforma dello Stato, i comunisti, nella prima commissione bicamerale per le riforme istituzionali (Bozzi), proponevano radicali riforme degli organi rappresentativi (una sola camera legislativa elettiva con 400 deputati), del ruolo del governo, della legge elettorale (la proposta Pasquino/Milani che, parere personale, sarebbe l’ideale anche oggi).
Entrambi i partiti e gli intellettuali di riferimento, intravidero il rischio di usura nel funzionamento delle istituzioni e dei meccanismi di rappresentanza politici e sociali.
Le proposte erano sicuramente e letteralmente discutibili, cioè destinate anche a modificarsi (dal mio punto di vista la teoria di Claudio Martelli su “Meriti e Bisogni” necessitava di qualche aggiustamento, diciamo), ma anziché discuterne come meritavano e come si doveva, prevalsero le radicali contrapposizioni politiche e, aspetto da non sottovalutare, caratteriali, di personalità umana e politica.
Erano i tempi in cui chi scrive, per fare un solo esempio del clima di quegli anni, si sentiva particolarmente e stoltamente orgoglioso di essere stato definito da Bettino Craxi “lupacchiotto leninista” per aver contestato con asprezza insieme ad altri l’allora segretario generale della UIL Sergio Benvenuto durante un comizio in Piazza della Signoria a Firenze. Che il mio gesto non fosse stato eroico ma, appunto, stolto, cominciai ad intuirlo allorché, avendo avuto notizia della mia bravata, il carissimo e ancora rimpianto Riccardo Conti, all’epoca giovane funzionario del PCI, mi apostrofò senza mezzi termini dicendomi: “bravo testa di c****, che ne dici di un futuro politico come diffusore de l’Unità a Vallo della Lucania”?
Insomma, un’occasione perduta. L’ultima occasione, probabilmente la più ghiotta, e non fu colta.
Da allora non ce ne furono più di quel livello, di quello spessore politico ed intellettuale.
Da allora in poi venne sempre meno la capacità di elaborare strumenti di trasformazione sociale.
La morte di Berlinguer e la voglia di parte di quella classe dirigente da lui stesso individuata e formata che premeva (e in alcuni casi tramava) per avere ruoli e visibilità diversi e di maggiore responsabilità. La “successione” ad Alessandro Natta non è, e non sarà, ricordata come un esempio di stile, politico ed umano.
Nel PSI, Craxi non rinunciava alla convinzione che una alternativa fosse possibile solo se i rapporti di forza tra il suo partito e il PCI si fossero ribaltati.
Tutto ciò provocò uno stallo, nella politica e nella società, che si trascinò stancamente sino al cupo periodo di “Tangentopoli”.
Fu, di fatto, il primo campanello d’allarme che occorreva cogliere. Il “popolo” non vedeva più nella politica ma nella magistratura lo strumento per la soddisfazione dei propri bisogni, ma ancor più dei propri rancori che oggettivamente, occorre ammetterlo, quella classe dirigente e politica aveva determinato e alimentato. Come se la rottamazione per via giudiziaria di un’intera generazione politica potesse provocare quella “universale palingenesi” invocata da Tommaso Campanella con quattro secoli di ritardo!
La politica, dal canto suo, indebolita e impaurita non seppe opporre alcunché.
Fu questo l’humus ideale che spalanco le porte a Berlusconi e al berlusconismo. Humus determinato da lui stesso che con le sue televisioni e i suoi giornali cavalcò cinicamente l’ordàlia giustizialista.
Con sua la discesa in campo sparì politicamente (ed elettoralmente) il centro e il confronto politico si radicalizzò. Personalmente trovo singolare parlare ancora oggi di centrodestra o centrosinistra. Il centro grazie (o per colpa, a seconda dei punti di vista) a Berlusconi, non esiste più. Vi possono essere delle pulsioni e delle politiche “centriste”, ma è cosa diversa dal centro politico così come lo abbiamo conosciuto nella prima Repubblica. C’è chi vorrebbe ricostruirlo. La contingenza politica, e la legge elettorale, lo permetterebbero. Lo si faccia, ma lo si dica chiaramente.
Dal 1994 ad oggi non si è mai votato per un’idea di Paese, di società. Nessun partito o movimento l’ha mai proposta, per il semplice fatto che mai l’ha avuta, mai l’ha costruita. Si è sempre trattato, in realtà, di un susseguirsi di referendum: pro e contro Berlusconi, pro e contro Prodi, pro e contro Renzi. E le (fragili) alleanze si costruivano sulla base di ciò.
Fatta eccezione per le due brevi esperienze dei governi Prodi e di qualche significativo intervento in campo economico e finanziario, nulla di memorabile è successo, nulla è stato realizzato.
Una politica e una classe dirigente che vedeva ristoranti pieni, crisi superata e, conseguente, benessere diffuso, quanto ci avrebbe messo ad essere spazzata via? Perché se in trattoria non ci puoi andare e se fai fatica a mettere insieme il pranzo con la cena; se corri come un pazzo con la bicicletta per portare una pizza e guadagni anche meno di ciò che ti servirebbe per comprartela tu una pizza; se succede tutto questo ed altro, non esiste narrazione, non esiste efficace comunicazione, non esistono social che possano cambiare la realtà. Non quella percepita, quella vissuta quotidianamente.
E allora, parafrasando Dalla e De Gregori, cosa sarà?
Cosa sarà che spinge tante persone, molti giovani, a rispondere all’appello di Piero Grasso e ritrovarsi a Roma per chiedere che Liberi e Uguali diventi finalmente un soggetto politico?
Cosa sarà che il prossimo 16 febbraio spingerà altrettanti uomini e donne ad essere a Roma e rispondere all’appello di Art. 1 – MDP per dar vita ad una nuova forza politica socialista ed ecologista?
Cosa sarà che motiva un uomo delle istituzioni ad essere in campo, a spendersi generosamente avendo la certezza che tra un paio di anni perderà la sua poltrona e un’altra non è affatto garantita?
Cosa sarà che, pur con tutto il disincanto che le prospettive consigliano, muove anche me ad essere ancora in campo e a non dedicarmi ad altro?
La speranza. Una fottuta e testarda speranza che quello per cui ho, abbiamo, combattuto una vita non sia stato del tutto inutile. Di più, non sia stata una sciocca illusione abbracciata solo per impegnare in qualche modo il mio, nostro, tempo.
Non posso, possiamo, rinunciare all’idea che un ragazzo di genitori stranieri, nato e cresciuto in Italia, non abbia gli stessi diritti, gli stessi elementari diritti, di mio, dei nostri, figlio/i.
Rifiuto di adeguarmi alla realtà che ci sia una moltitudine di donne e uomini, italiani e non, destinati all’invisibilità sociale, condannati ad accettare le disuguaglianze sociali ed economiche, e convivere ineluttabilmente con esse.
Continuo a pensare che ci sia una forma diversa, in Italia e nel mondo, per redistribuire equamente e con giustizia la ricchezza.
Mi ribello alla circostanza per cui chi si affaccia oggi nel mondo del lavoro non abbia le mie stesse tutele, perché qualcuno ha ritenuto che minori diritti generassero maggiore ricchezza. Io non sono un nostalgico dell’art. 18. Io quell’art. 18 non lo voglio più! Perché la realtà di questi anni ci ha insegnato che i diritti negati (la dignità del lavoro e dei lavoratori) sono diffusissimi e si annidano proprio in quelle aziende che erano escluse dall’applicazione di quella norma. Io voglio, e lo dico a gran voce, un art. 18 per tutti! Se così non fosse, sarebbe un privilegio, non un diritto.
Contesto l’idea che si continui a ritenere che la supremazia e l’inviolabilità mercato, come il mondo di Candide di Voltaire, sia la migliore, se non l’unica, delle risposte possibili alle ingiustizie sociali.
Vorrei che si costruisse, in Italia e in Europa, una alternativa alla “There is non society” di thatcheriana memoria, alla privatizzazione dello Stato.
Io so che queste speranze sono condivise da molti, forse dalla maggioranza degli italiani.
E allora basta. Basta a parlarci addosso. Abbiamo una nuova occasione storica. Chiunque nel PD, in Liberi e Uguali, in Art. 1, in Sinistra Italiana, nei socialisti di Bobo Craxi, nei movimenti democratici ed ecologisti, ritiene che sono i valori di un moderno socialismo ed ambientalismo ( i risultati del summit di Katowice sul clima sono a dir poco inquietanti), l’unica risposta efficace a liberismo, razzismo e rigurgiti fascisti e nazionalisti, dia vita ad una nuova Costituente della Sinistra e alla costruzione di una forza politica unitaria. Si inizi a discutere di questo percorso. Chi eventualmente non si riconosce, chi ha altri orizzonti, faccia legittimamente altro. Il momento, come dicevo, è propizio.
Christopher Guilluy, geografo francese che ha inventato il termine di “France Periphèrique”, a ragione ci avverte ci avverte che in Europa c’è “un elefante malato in mezzo al negozio di porcellana”. E’ l’evoluzione transalpina della bersaniana “mucca nel corridoio”, ma i nefasti effetti sono gli stessi.
Non rifacciamo gli errori degli anni ’80, il conto (salato) lo stiamo pagando e lo pagheremo chissà per quanto.