Enrico Rossi

I cinque punti di Rossi per cambiare il Pd

Di seguito l’intervento di Enrico Rossi, il presidente della Toscana, candidato alla segreteria del Pd, all’assemblea nazionale “Il No che costruisce un nuovo centrosinistra”. Un intervento in cinque punti.

1) Sul referendum non c’è stata nessuna riflessione dopo il voto. Qualunque analisi dimostra come nella vittoria del No si sia manifestata una divaricazione tra centro e periferia. Ci sono nuove profonde fratture sociali e generazionali. Al tempo stesso sarebbe un errore ridurre questo voto alla sola protesta ed espressione di malessere. Nel campo del “No” si è manifestato anche un sentimento diffuso di patriottismo costituzionale, sul quale il Partito Democratico deve riflettere a fondo. Renzi non sembra però intenzionato a promuovere una riflessione di questo tipo, che si interroghi sulle ragioni dell’inadeguatezza della nostra proposta. L’intenzione sembra invece quella di cercare una rivincita, di riproporre la medesima proposta fondata sul primato del leader, sull’assenza di una visione consapevole dei problemi strutturali e sull’incapacità di fornire risposte adeguate. Cercare nuovamente di “vincere al centro” dopo tante sonore smentite sarebbe suicida. Non si può continuare a ignorare il disagio dei ceti più deboli. In caso contrario si tratterebbe di una proposta che gli italiani hanno già bocciato sonoramente e che, se verrà loro riproposta come in una coazione a ripetere, bocceranno ancora. Ora si agita l’obiettivo del 40%, pur consapevoli che questo è quasi irraggiungibile. Tutto nella speranza di mantenere una centralità in Parlamento, al carissimo prezzo in uno scenario in cui peseranno ancora di più i trasformismi. Invece di immaginare listoni – che sarebbero, quelli sì, accozzaglie – occorre ricostruire un campo della sinistra dal chiaro orientamento, che non sia la riedizione dell’Ulivo ma una seria proposta che parta da una radicale critica dell’attuale assetto neoliberista, che si articoli in pochi ma chiari punti. Sono convinto che una proposta di questo tipo raccoglierebbe il consenso sia di chi già si riconosce nei valori progressisti e “di sinistra”, sia di chi appartiene alla tradizione del cattolicesimo democratico.

2) L’idea del voto anticipato è sbagliata per la sinistra e per il Paese. Come hanno notato gli analisti, se andassimo a votare con questa legge avremmo con certezza un parlamento senza alcuna maggioranza e in ampia parte composto da nominati. Se è vero che la sentenza della Consulta, è come inevitabile, autoapplicativa, le forze politiche non possono non partire da una loro proposta parlamentare, che consegni al paese una legge più armonica tra Camera e Senato in grado di assicurare una maggioranza in Parlamento. Al contrario lo scenario di un Parlamento ingovernabile non disturberebbe i Cinque Stelle e la Lega, partiti che vedrebbero consolidata la loro rendita di posizione. Propongo, come ha fatto Romano Prodi di introdurre almeno due requisiti per una nuova legge elettorale: collegi più piccoli degli attuali, tali da consentire un rapporto diretto tra eletti ed elettori e l’abolizione dei capolista bloccati (come aveva peraltro proposto lo stesso Renzi).

3) Del resto oggi i populismi non sono più l’eccezione o un fenomeno di folklore. Con l’elezione di Trump il populismo di destra ha compiuto un salto di qualità. Esso non è più un fenomeno isolato o antisistema, ma minaccia di farsi esso stesso ordine. L’amministrazione Trump costruisce nuove intese con il governo di Theresa May scaturito dalla Brexit, con la Russia di Vladimir Putin, con un Erdogan sempre più autoritario, oltre che con le tante forme di una destra nazionalista che si vanno diffondendo in tutto il mondo. La prima lezione per la sinistra deve consistere nel prendere sul serio la sfida posta dalle proposte dei populisti. I problemi e i bisogni ai quali essi vogliono rispondere sono reali. La sofferenza sociale di un ceto medio sempre più impoverito, lavoratori, soprattutto del manifatturiero che si misurano in solitudine con delocalizzazioni e deindustrializzazione, la nuova disoccupazione tecnologica causata dall’automazione, il dumping sociale e la guerra tra poveri provocati dalla presenza di un’enorme riserva di nuovi poveri in cerca di occupazione, soggetti a un’incessante svalutazione del lavoro. A queste categorie viene proposta una ricetta profondamente sbagliata, fatta di massicce detassazioni, politiche commerciali protezioniste e discriminazione tra lavoratori di diverse etnie. Questa ricetta, lungi dal modificare i rapporti di forza di questo capitalismo che hanno prodotto la situazione attuale, promuove in realtà gli interessi di quell’establishment che critica a parole. Come ha detto bene Michael Walzer «Il populismo è possibile oggi grazie all’austerità e all’indifferenza per le sofferenze della gente che il neoliberismo ha incoraggiato. I demagoghi populisti sostengono di voler migliorare la sorte di queste persone, ma non c’è nessun miglioramento reale, perché non fanno nulla per alterare i rapporti di potere dell’economia liberista o dei suoi Stati colonizzati. Il populismo, però, può essere spaventosamente efficace nel perseguitare i presunti nemici del popolo, gli “altri” eletti a capro espiatorio: gli immigrati e le minoranze».

4) Di fronte a tutto questo la sinistra ha il dovere di elaborare una propria risposta a partire dalla critica di questo capitalismo, iniquo e disumano. Prendiamo l’Italia, che cosa è diventato il capitalismo italiano, quali sono le sue tendenze prevalenti? È un capitalismo senza investimenti, incapace di creare lavoro, avvitato su posizioni di rendita e su un familismo senza visione. Accanto a questo capitalismo, resiste un altro capitalismo, in grado di innovare, di creare sviluppo e redistribuire ricchezza alla comunità. Una forza di sinistra ha il dovere di porsi il problema di come stimolare il sistema produttivo del Paese, alleandosi con le parti più dinamiche di esso e usando lo strumento dell’azione pubblica per rilanciare la crescita e lo sviluppo. Ce lo chiede l’OCSE, nel suo ultimo rapporto. Chiede esplicitamente politiche espansive di investimento, con un Quantitative Easing per l’investimento pubblico. Dal 2007 ad oggi nel nostro paese sono mancati 1000 miliardi di investimenti di cui almeno 100 da parte del pubblico. Se questo non fosse avvenuto il Paese avrebbe 3 milioni di unità di lavoro in più. Con Renzi è aumentata la spesa pubblica e il debito senza che questo si traducesse in crescita e investimenti. Con i bonus e le detassazioni di Renzi una massa finanziaria ingente è stata distolta a scapito di investimenti che, se realizzati, avrebbero prodotto, come ha scritto Pierluigi Ciocca, il 2,5% di crescita. Se questo non è avvenuto è innanzitutto per una debolezza culturale. Matteo Renzi è il prodotto finale di un processo cominciato negli anni Ottanta e coincidente con quella che Visco ha definito la “fine del paradigma keynesiano”, un processo che anche noi quando abbiamo governato non siamo stati capaci di invertire, subalterni alla Terza Via e alle tesi sulla fine della storia. Oggi la società italiana ha sulla pelle i segni di questa trascuratezza: vi sono 4 milioni e mezzo di poveri assoluti, circa un milione di titolari di pensioni sociali, mentre la disoccupazione giovanile si aggira intorno al 40%.

5) Per elaborare una proposta adeguata ad una sfida così complessa abbiamo bisogno del tempo necessario. Non dobbiamo solo riflettere sulle cause della nostra sconfitta, ma anche elaborare un piano di azioni coerenti con questa analisi, in grado di affrontare l’Idra del populismo. Occorre ripensare la sinistra in questo nuovo contesto globale, affrontando anche il nodo centrale della riforma del socialismo europeo, necessaria per elaborare una proposta davvero credibile in sede europea. L’unico strumento adeguato per dare spazio a questa discussione è la pronta convocazione di un congresso rifondativo della nostra cultura politica e della nostra rappresentanza sociale. Occorre superare il vizio d’origine del PD, ben incarnato dalle idee espresse nel discorso del Lingotto. Nel frattempo ci sono delle urgenze che il paese deve affrontare: bisogna mettere in sicurezza il territorio, procedere con la ricostruzione dei paesi distrutti dal sisma, accordarsi con Bruxelles in merito all’aggiustamento dei conti pubblici, rivedere le politiche del lavoro sui voucher, ripensare le politiche di accoglienza, porre mano alle disfunzioni generate dalle più recenti riforme della scuola e ricostruire la trama istituzionale del Paese dopo la desertificazione dei corpi operata in questi anni di austerità e nuovo centralismo. Per questo l’ultima cosa di cui l’Italia ha bisogno è uno scontro elettorale che esacerbi divisioni già profondissime, senza affrontare tali problemi. Occorre dunque sostenere l’azione del governo Gentiloni, lavorando alacremente al tempo stesso all’elaborazione di una nuova proposta per la sinistra e per il Paese.

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