Assemblea MDP

Il cambio di passo e di linguaggio di Art.1. Da chiarire il nodo Europa

Il documento “Una Nuova Proposta” ha segnato il cambio di passo e di linguaggio che invocavamo da mesi. D’un tratto, quasi inaspettatamente ormai, dopo mesi di frustrazione, si passa dalle formule astratte e politicistiche che a molti, quest’estate, hanno strozzato l’entusiasmo (vedi per tutte la chimerica ricostruzione del centrosinistra), alla esplicita aspirazione di voler “cambiare la vita delle persone”. Ha detto Laforgia all’Assemblea Nazionale: “Se dico a un ventenne che bisogna fare l’alleanza col PD per arginare i barbari, mi risponde che i barbari siamo noi, che gli abbiamo creato le condizioni di una vita di precarietà”. E allora, la nostra azione politica non può essere volta a “ricostruire il centrosinistra” – termine che tra l’altro, con la fine del bipolarismo, ha perso oltre che attrattiva politica anche ogni logicità – con alleanze, che, come si legge nel documento, sarebbero “a difesa dell’establishment e di un ordine sociale ormai insostenibile”, ma deve essere volta a “riconnettere sinistra e società” per dare spazio a una politica diversa che risollevi la vita delle persone. Bene, in questo il documento è chiaro e esplicito. Per la prima volta, poi, non si parla di errori, ma di “discriminazioni salariali”, “disegno di disgregazione delle condizioni di uguaglianza”, “indebolimento dell’istruzione quale corollario indispensabile delle “riforme” volte a rendere il lavoro più precario”, “processi striscianti di privatizzazione”.

Non è complottismo (così come ogni istanza di cambiamento viene derubricata sotto la voce “populismo”, ogni riconoscimento delle fratture del conflitto viene ridotto a “complottismo”), ma un barlume del ritorno della lotta di classe anche nel nostro agire politico, non solo in quello di chi la lotta di classe la sta vincendo, come diceva Gallino, dall’alto. Un ritorno che salutiamo con liberazione, noi giovani: a proposito di “come si fa ad avvicinare i giovani alla politica”? Certo non invocando Prodi e l’Ulivo, simboli di una stagione lontana, che, a torto o a ragione, viene ritenuta coresponsabile della nostra condizione di precarietà vitale, e che sicuramente non emoziona. Forse, invece, iniziando a individuare chiaramente chi è che sta guadagnando dalla nostra precarietà, quali sono i vincitori della crisi, tornando a far emergere e quindi agire sul conflitto tra profitti e salari.

E allora, con entusiasmo leggo nel documento – da quant’è che mancavano riferimenti del genere nel vocabolario della sinistra PDS-DS-PD? – che ci poniamo “l’obiettivo imprescindibile della piena occupazione”, che per altro “dipende anche dalla riattivazione di forme di intervento pubblico nell’economia”; e che per farlo, come prima cosa, ci proponiamo di “spostare il prelievo dal lavoro alle rendite e ai grandi patrimoni” avviando anche una “lotta senza quartiere all’evasione”. Anche l’integrazione europea non viene vista come un percorso luminoso in cui – malauguratamente – sono stati commessi degli errori, ma come un “processo di integrazione egemonizzato dal liberismo”, e il neoliberismo rimane sullo sfondo di tutto il documento come termine, certo di comodo, ma evocativo e dotato di una certa pregnanza storico-esplicativa, sintesi del processo storico che ha portato alle condizioni insostenibili e inaccettabili in cui ci troviamo a vivere. Eminente risulta, quindi, nel testo il ruolo affidato alla battaglia culturale di costruzione di una egemonia alternativa, che entri in competizione con quella delle destre a cui la sinistra da molti anni si è adattata in condizioni di completa subalternità.

Questa battaglia politica e culturale è, però, tradita in alcuni punti: che sia chiaro, non sto elencando i punti che non mi piacciono del documento, sarebbe un esercizio sterile e autoreferenziale. Voglio porre l’accento su quei punti che mi sembrano in contraddizione con le premesse, il tono, gli scopi del documento stesso, residui di questa subalternità di cui ancora ci dobbiamo liberare.
Il primo e più evidente riguarda l’Unione Europea. Non l’Unione Europea che vorremmo – o che molti di noi vorrebbero – ma quella che abbiamo qui e adesso. Davvero vogliamo rilanciare e dare più forza a un progetto egemonizzato dal neoliberismo? Come vorremmo poi combattere lo stesso neoliberismo in patria? Non si tratta per altro di un’egemonia politica estemporanea: è un’egemonia legale, istituzionale, sancita dai trattati. Così come la nostra Costituzione sanciva una Repubblica fondata sul lavoro e sul progresso sociale, i Trattati sanciscono il primato del mercato, della libera concorrenza, della proprietà privata. Se è vero che non si può ignorare la dimensione europea e globale dei problemi, non ci si può rinchiudere in noi stessi, allora, proprio per questo, l’Europa deve diventare il primo terreno di scontro. Abbiamo in mente un progetto per “cambiare l’Italia” (è questo lo slogan, no?); questo ci interessa, allora la domanda chiave è: l’attuale Unione Europea è compatibile con questo progetto oppure no? Mettiamola alla prova, sfidiamola, nella consapevolezza che se dovessimo scegliere tra il nostro progetto e un progetto strutturalmente liberista non dobbiamo e non possiamo avere dubbi. Anche perché l’Unione Europea non può essere ritenuta un fine: o è un mezzo per la pace e per il benessere, o non è. Che “rilanciare la costruzione europea in senso progressivamente federalista” non diventi il sostituto chimerico di “ricostruire il centrosinistra”: nessuno dei due è un fine. Cambiare l’Italia è un fine. Voglio essere più esplicito: se riuscissimo – è un’astrazione, questa sì, utopica – a realizzare ogni singolo punto del programma che ci proponiamo, avrebbero senso espressioni del tipo “senza l’Europa i singoli Stati nazionali sarebbero condannati ad una crescente irrilevanza”? Di quale irrilevanza stiamo parlando? Credo che cambiare con tale radicalità la vita delle persone con i punti che stiamo proponendo sarebbe un’azione politica tutt’altro che irrilevante. Ad esempio, dove rientra in questo schema l’uscita dalla povertà e la crescita strabiliante della Corea del Sud: è irrilevante perché piccola casa nazionale? O si sta parlando di un altro tipo di irrilevanza? È forse il rimpianto della politica di potenza? (della colonizzazione dell’Africa?) La rilevanza che rivendichiamo è quella di imporre tutti insieme sanzioni a Venezuela, Russia, Siria, Iran, contrarie a ogni principio democratico, umanitario, progressista, alla pace, nonché al benessere dei cittadini italiani?

L’alternativa “salvare l’Europa con più democrazia, solidarietà e diritti” oppure “rassegnarsi al galleggiamento” (un po’ troppo simile all’esortazione nuovista dal sapore futurista dell’“uscita dalla palude”, no?) che produrrà “un ritorno alle piccole case nazionali” è quindi del tutto impropria. L’alternativa è tra continuare nelle condizioni di vita attuali – che nulla hanno di astratto – e cambiare la vita delle persone, senza astrazione e senza retorica. Nessun compromesso su questo, rassegnarci a tutto ciò che ci chiede l’Europa, processo a egemonia e traino neoliberista, ha contribuito a portarci in queste condizioni. E la contraddizione con il resto del documento è evidente: l’Europa ha sostenuto e incensato il jobs act. Da che parte stiamo, più Europa o meno jobs act? L’Europa sosteneva la riforma costituzionale, e in generale lo stupro dei parlamenti a vantaggio dei governi e delle burocrazie non elette, per velocizzare gli inutili lunghi tempi della democrazia. Da che parte stiamo? L’Europa ci chiede l’innalzamento dell’età della pensione: da che parte stiamo? L’Europa chiude le frontiere e ci spinge ai respingimenti: da che parte stiamo? Dalla parte degli accordi con la Turchia e con la Libia, o vogliamo ancora indignarci per la tratta degli schiavi? Da dove traggono legittimità gli “striscianti processi di privatizzazione” del welfare e della sanità, se non dall’Unione Europea e dalle altre istituzioni internazionali ad essa organiche? E noi da che parte stiamo, dalla parte della privatizzazione della sanità o da quella degli investimenti nel welfare? Come conciliamo l’obiettivo della piena occupazione con il fiscal compact e con il vincolo di pareggio di bilancio, con i parametri di Maastricht, con il sostanziale divieto dell’intervento pubblico in economia? (tranne quando si tratta di dare soldi alle banche). Da che parte stiamo quando l’Europa manda i propri funzionari in Grecia a castrare un governo eletto democraticamente e ad imporre la miseria sui suoi cittadini? Dalla parte della troika o, senza condizioni, dalla parte dei lavoratori greci? A inizio anno il nostro Parlamento dovrà votare l’introduzione del Fiscal Compact a pieno titolo nel sistema giuridico dell’UE: voteremo anche noi con l’Europa oppure staremo dall’altra parte, all’opposizione?

Tutto questo non per dire che ogni cosa è colpa dell’Unione Europea, tanto più che noi siamo parte importante dell’architettura europea, quindi quello che “ci chiede l’Europa” in buona parte ce lo chiediamo da soli… Però, al netto della retorica federalista, lungo le fratture concrete appena segnalate, da che parte ci poniamo? Dalla parte di un progetto da molti anni in mano alla destra tedesca o dalla parte di un progetto di emancipazione popolare del nostro paese? “Le chiacchiere stanno a zero”, per usare un’espressione in voga in questi giorni. Tanto più che è arrivato anche il momento di rendersi conto che rafforzare questa Europa vuol dire portare alla fine di qualsiasi auspicabile progetto progressista di integrazione, fondato su stato sociale, diritti del lavoro, equità, ridistribuzione; tale progetto può nascere solo dalla sconfitta di questa Unione Europea.
Uno dei capisaldi della costruzione europea, invenzione dell’economia neoclassica e quindi alle radici del neoliberismo contro il quale vogliamo impegnarci, riguarda l’indipendenza e l’autonomia della banca centrale (vera e unica causa, per altro, dell’esplosione del debito pubblico in Italia). Un altro residuo di subalternità che troviamo nel documento. Mi rendo conto che non è il momento, in un tale clima di delegittimazione istituzionale, di sparare a zero contro ogni istituzione rappresentante del potere statale. Però tanto meno mi sembra opportuna la difesa da posizioni conservatrici della “sottrazione dell’indirizzo politico” (ovvero sia, sottrazione dal controllo democratico) di organi quali la banca centrale. Sono dogmi da ripensare, così come stiamo faticosamente mettendo in discussione il dogma delle privatizzazioni. In questo stadio, si dovrebbe quanto meno cancellare il paragrafo relativo.

Così come contraddittorio, rispetto ai fini della nostra proposta di cambiamento del Paese, mi pare il punto relativo alla tassazione dei robot (proposta, si badi bene, sollevata da Bill Gates, non dall’ILO…) si può trasformare in un ulteriore freno all’investimento in tecnologia e innovazione, dando ulteriore spinta alla strada di competizione attraverso la compressione dei costi (quindi dei salari) che da molti anni stiamo percorrendo. Non è vero che “se aumentano i robots si riducono i salari e aumentano i profitti”! Keynes, ne “Le prospettive economiche per i nostri nipoti”, parlava della meccanizzazione come del fenomeno che avrebbe portato a una definitiva emancipazione dell’uomo: diventeranno necessarie poche ore di lavoro a settimana, diceva. Facciamo nostra la giusta battaglia per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, associandola ad un piano straordinario di investimenti in tecnologia e innovazione.

A proposito di salario: non è possibile che non si affronti la questione salariale all’interno del paragrafo su scuola, istruzione e ricerca. L’anomala situazione italiana è insostenibile prima di tutto da un punto di vista culturale: anche qui, troppo a lungo abbiamo lasciato che la retorica di destra corrodesse la figura del docente, il cui ruolo nella società è stato declassato e umiliato, fino a togliergli ormai sempre più spesso anche una dignità economica. Quando le scuole pubbliche non offrono buoni servizi (ma generalizzare come si fa nel documento è semplicemente falso), spesso ciò è dovuto a mancanza di fondi, e se si vuole invertire la tendenza, come si dice, bisogna partire dallo stop ai finanziamenti alle scuole paritarie: in un primo momento, si manterranno i finanziamenti in quei segmenti dove lo Stato non riesce a garantire l’universalità del servizio. Ma si deve avere ben chiaro che il fine è proprio quello di garantire tale universalità, e quindi di annullare completamente tali finanziamenti: anche da qui passa la “ricostruzione dello Stato” e la battaglia contro il neoliberismo di cui si parla nel documento.

Infine: il paragrafo “democrazia” dovrebbe scalare in fondo al documento. Non certo perché sia meno importante degli altri! Sarebbe bene però emanciparsi anche da questo caposaldo neoliberista: la democrazia non è un dato formale. La democrazia è solo quando è sostanza, e ciò che dà sostanza alla democrazia sono proprio tutti gli altri punti del programma. La qualità della nostra democrazia è a livelli di allarme non perché manchino le procedure democratiche, ma perché queste sono percepite come un mondo a sé, sconnesso dalla vita delle persone che è in balia di totem mitologici che la politica e la democrazia hanno consapevolmente scelto di non controllare: il mercato, la finanza, la delocalizzazione, in una parola, la globalizzazione. Questo lo abbiamo avvertito chiaramente facendo volantinaggio contro le questioni di fiducia sulla legge elettorale: siamo visti come alieni. A chi importa di come si gestisce al suo interno il mondo del palazzo, se sono anni che questo dichiara ai quattro venti che “non ci sono alternative” e che non ha il potere di decidere cosa fare per il bene dei cittadini perché poi il mercato giudica, decide, punisce. I cittadini difenderanno le istituzioni democratiche se percepiranno che queste hanno effetto sulla loro vita e possono cambiarla in positivo; non per sé stesse. E allora, visto che il documento si propone anche un’ambiziosa battaglia culturale e di creazione di un’egemonia alternativa a quella della destra, iniziamo ad asserire nelle parole e nei fatti l’efficacia delle istituzioni sulla vita delle persone. Propongo quindi, in primo luogo, di sostituire l’incomprensibile paragrafo che invoca la “riduzione del numero dei deputati e dei senatori” (perché? Secondo quale criterio? Con che vantaggio per il paese?) con un paragrafo che pone all’interno della nostra azione politica il ritorno a forme di finanziamento pubblico ai partiti, precondizione perché possa esserci una politica di sinistra, che sia popolare e che tuteli gli interessi dei ceti popolari.

Foto di copertina: I partecipanti all’assembela nazionale di MDP

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