Serena_Spinelli

Il disegno tracciato è più grande di un flop

“È necessario ripartire dall’ascolto, dai territori, dalle persone che si impegnano quotidianamente nel volontariato per garantire un tessuto sociale forte che crede ancora nella solidarietà e combatte le disuguaglianze. Idee e risposte nuove, senza la presunzione di averne già”.

Questo mi ha scritto qualche giorno fa in un lungo messaggio un caro compagno.
Che come me sente forte il bisogno di un supplemento di riflessione, di analisi, di comprensione. Perché c’è qualcosa che sfugge mentre ci accorgiamo che stiamo entrando in una “terra sconosciuta”, di cui non possediamo le mappe.

Perché la Sinistra in questo scenario pare essersi dissolta. Dissolto quel pensiero capace di elaborare una visione per un mondo più giusto, di essere il motore di un riscatto sociale, di una redistribuzione della ricchezza, di una democrazia solidale, di una crescita collettiva e inclusiva.

La Sinistra che non è stata capace di far fronte ai nuovi cambiamenti tenendo la barra dritta sui propri principi.
Nel momento in cui c’è più bisogno di Sinistra – di redistribuzione, di progressività, di protezione e di tutele per i lavoratori e per le fasce più deboli e fragili – per tentare di ridurre disuguaglianze esplose a livelli insostenibili, non solo non siamo stati percepiti ma rischiamo di scomparire.

Tornando alla frase del messaggio che ho ricevuto, sono d’accordo, e rilancio: per ripartire serve cambiare tutto. A partire dal cambiare noi stessi. (1)

L’analisi della sconfitta e il peso delle liste

Abbiamo peccato di scarsa radicalità nelle nostre proposte, non siamo riusciti a far passare un messaggio di discontinuità. Liberi e Uguali non è stata interpretata come alternativa allo status-quo, come forza di cambiamento e non di conservazione.
Più in generale, la forte richiesta di riscatto, di opportunità, proveniente da quei “molti” che hanno visto peggiorare le proprie condizioni di vita e di lavoro – quei “molti” che si sono trovati sempre più soli mentre scivolavano in una condizione di esclusione sociale e di povertà – non hanno ritenuto che l’alternativa, lo strumento per cambiare l’esistente, potesse arrivare da Sinistra.

Sapevamo che nel breve tempo di una campagna elettorale non sarebbe stato facile interpretare questa richiesta con la dovuta profondità. Senza tanti giri parole, però, bisogna ammettere gli errori commessi.

Non voglio dilungarmi in un’analisi retrospettiva del nostro percorso, faccio solo un accenno a quei mesi che prima di approdare a LeU ci hanno visto impegnati nella costruzione di un campo indefinito, pieno di rinvii e di incertezze. Mentre il modo migliore per impegnare il tempo sarebbe stato lavorare alla costruzione di un soggetto politico unitario della sinistra, dotandosi di strumenti di partecipazione e decisione democratica; con l’obiettivo di arrivare all’ineludibile scadenza elettorale con qualcosa di almeno un po’ più strutturato e definito nella propria identità di una “lista unitaria”, seppur dotata dei migliori intenti.

E poi ha pesato, e non poco, la composizione delle liste elettorali. In Toscana, e credo anche in molti altri territori, siamo in gran parte riusciti a esprimere candidati radicati e scelti dal basso, introducendo nuove personalità, legate a temi e battaglie emblematiche della sinistra e della società civile, amministratori preparati, rispondenti all’idea di una sinistra moderna, aperta e plurale. Questo, però, a fronte degli orrori del Rosatellum, non è bastato a fermare la rappresentazione di un’operazione verticistica e di chiusura. L’immagine di un arroccamento che ha finito per penalizzare i territori, e soprattutto ha escluso quella tanto invocata apertura e immissione di risorse, energie e prospettive rinnovate.

Faccio un esempio che credo valga più di tanti ‘spiegoni’. Non siamo stati in grado di raccogliere la disponibilità umana e politica di Pietro Bartolo, il medico di Lampedusa, probabilmente l’espressione più alta della nostra società civile. Non solo. Nelle nostre liste mancavano, o comunque erano troppo nascosti sotto allo spesso strato di pluricandidature, proprio coloro che vogliamo rappresentare: i lavoratori, i precari, gli studenti, il mondo della cultura, dei movimenti giovanili, della ricerca, dell’impresa sociale…

Abbiamo proposto politiche di alternativa rispetto a tendenze consolidate, rimettendo al centro i valori della sinistra. A nostro vantaggio va aggiunto che le cose non le abbiamo solo dette: le abbiamo soprattutto discusse in decine di assemblee e iniziative sui territori, e infine raccolte in un programma.
Ma è stato troppo tardi. E non solo rispetto alla data delle elezioni. Il ritardo, purtroppo, è di proporzioni storiche. E non sta certo solo negli ultimi cinque anni.
Così quei molti che ci proponiamo di rappresentare, nel frattempo, se ne sono andati e hanno riposto altrove la propria fiducia.

Un disegno più grande di un flop

Tornare indietro rispetto a quanto detto e sostenuto diverse volte, per ultimo in campagna elettorale a pochi giorni dal voto, rispetto al procedere verso una forza organizzata e unitaria della sinistra, sarebbe un errore. Ce lo chiede quella che ancora mi pare appropriato chiamare la “base”, che dovremmo far contare molto di più, soprattutto rispetto ai personalismi e ai narcisismi del ceto politico.

La volontà di procedere verso un partito, richiede certo una riflessione profonda, a partire proprio dalla “forma partito”.
Ma dobbiamo tener conto che molti dei cittadini che hanno scelto di votare Liberi e Uguali, lo hanno fatto per dare fiducia a questo orizzonte.

Non nego di temere i rischi connessi: chiusura, orticelli, fretta, assenza di riflessione sulla nostra identità politica, il contenitore che arriva prima dei contenuti ecc ecc… Mi fermo qui con l’elenco perché, nostro malgrado, li conosciamo tutti bene, dato che di questi errori è costellata la storia della Sinistra.

Però se c’è una cosa che, secondo me, queste elezioni ci dicono è che la Sinistra se vuole tornare a svolgere un ruolo di trasformazione e di miglioramento della società deve ripartire da capo e dal basso. Tornando dove non c’è più, uscendo da un eterno dibattito autoreferenziale, dai personalismi, dalle dinamiche di provincia.
E soprattutto uscire dalle nostre stanze, tornando realmente in mezzo alla gente, alle loro difficoltà, soprattutto laddove c’è più bisogno, esclusione, tensione e purtroppo anche conflitto. Cercando di migliorare la società e il mondo in cui viviamo a partire dalla ricostruzione delle nostre comunità e dalle battaglie locali. (2)

Prendiamoci l’impegno di uscire da ogni assemblea con una nuova iniziativa programmata. Serve passare dalle lunghe riunioni di (auto)analisi alla proposta politica e all’azione collettiva. Ho trovato azzeccato il titolo di un recente articolo di Peppino Caldarola: “Meno parlamentari ma più battaglie sociali”.

Con un partito che serva a raccogliere e sviluppare un insieme di valori politici e programmatici, a formare e valorizzare una “classe dirigente” diffusa e preparata. Un partito che insieme a una linea politica metta a disposizione strumenti di partecipazione e di azione.
Ripartire dai territori significa organizzare una presenza diffusa e radicata di militanti e di amministratori preparati e rappresentativi delle fasce sociali e delle istanze che vogliamo interpretare.

Ci siamo stati dove eravamo radicati. Bisogna radicarsi

Due giorni prima del voto ho affermato, volutamente in maniera un po’ forte, che riaccendere una speranza e riunire e riattivare una militanza era stata la nostra prima vittoria. Una parola che oggi suona evidentemente un po’ stonata. Sono convinta, però, che è questo che ci permette di affermare che vale la pena non fermarsi.

Ho potuto vedere il grande lavoro che, a Firenze e in provincia, i militanti hanno fatto per riavvicinare le persone, coinvolgendole, facendole protagoniste di un nuovo percorso politico, riattivando spazi di confronto e di progettualità. E insieme alle difficoltà e alle diffidenze, abbiamo raccolto tante manifestazioni d’interesse, adesioni, voglia di partecipare.

Non è un caso se è proprio in questi luoghi che abbiamo ottenuto i migliori risultati. Risultati che ci consentono di essere riconoscibili e di avere un’agibilità politica autonoma. Un patrimonio di cui tener conto, che ci permette di essere attenti a quello che accade nel Pd e nelle altre forze politiche. Ma credo che sarebbe un errore aspettare di definire “ciò che siamo” e “dove vogliamo andare” sulla base di quello che succede nel Pd, o di come e quanto il M5S si metterà a fuoco nella nuova ottica di forza di Governo.
Serve a poco parlare di scenari futuri e di alleanze, senza costruire un’identità, una visione, una proposta politica autonoma e definita, che ci permetta anche sui territori di essere disponibili a dialogare e interagire con le altre forze in campo, ma senza subalternità.

Prima cominciamo a lavorarci sopra, e più approfonditamente lo facciamo, meglio è.

Di cosa parliamo quando parliamo di centrosinistra?

Il cambiamento necessario passa anche dal linguaggio, che spesso coincide con gli strumenti per analizzare il presente e per immaginare il futuro. Mi pare che ricostruire la Sinistra sia già un’impresa degna di questo nome da portare avanti nei prossimi anni. Per quanto riguarda il centrosinistra tutto insieme, a ciascuno il suo.

Ribadiamo fermamente che non possiamo adattarci a ogni cosa. E ogni tipo di interlocuzione – che può sussistere solo alla condizione di non cedere niente rispetto ai nostri punti fermi su antifascismo, assetto costituzionale, immigrazione, diritti civili, democrazia rappresentativa – deve essere funzionale al progetto di crescita e radicamento di un nuovo soggetto politico autonomo.

Quindi a proposte di netta discontinuità “a sinistra” – allo scopo di rimettere al centro e trovare un terreno il più possibile fertile per le nostre proposte su lavoro di qualità, sanità e scuola pubblica, diritti sociali e civili, tasse progressive e servizi universali. Il che significa anche non reiterare vecchi schemi, a partire dai territori (e perché no dalle amministrative). E soprattutto non significa puntare per forza ad ogni possibile accordo col PD, né escludere a priori ogni dialogo con il M5S.

Non c’è bisogno di prevedere alleanze strutturali. Credo piuttosto che dovremmo andare a “sfidare” sui temi le altre forze politiche, forti di valori e idee più giuste e più solidi.

Se con centrosinistra, si intende fare grossolanamente riferimento a una distinzione tra una presunta “sinistra riformista” rispetto ad una meno rassicurante “sinistra radicale”, allora il termine è improprio, ma induce una riflessione.

Quale riformismo, dopo un paio di decenni passati a “correggere le virgole” alla globalizzazione economica, a teorizzare che il mercato si sarebbe potuto regolare senza più bisogno di un compromesso sociale tra capitale e lavoro, spianando piuttosto la strada all’avanzata di un neoliberismo rapace, alla finanziarizzazione delle dinamiche europee e internazionali?.

Quale riformismo, insomma, può oggi dirsi migliore di una sinistra “radicale”, che vuole piuttosto, come dice la parola, tornare ad affrontare alla radice i temi della società contemporanea, diventata l’era della concentrazione della ricchezza e delle risorse, dell’esplosione delle disuguaglianze economiche e sociali, dello sfruttamento imposto da un algoritmo?

Se infine, più correttamente, vogliamo intendere il centrosinistra come l’unione delle forze democratiche, cattoliche, e della tradizione socialista, coltivando l’auspicio che queste siano maggioritarie nel Paese e in grado di permettere al Paese una tranquilla navigazione, forse non si sta valutando bene quanto il mare sia in tempesta.

Sarebbe come cercare di ripartire da dove eravamo rimasti. Da una fusione a freddo mai davvero riuscita, più che da un Ulivo 2.0. Non sarò certo io disconoscere i meriti, anche storici, di un centrosinistra di governo, in particolare rispetto alla storia e alla tradizione di “buongoverno” dei territori. Ma sarebbe sciocco, oggi, farsi sconti sugli errori.

Ormai la parola “centrosinistra”, anche da alcuni dirigenti di LeU, viene utilizzata un po’ come un “brand”. Solo che a differenza dei brand che funzionano, come il “Chianti” o come la “Coca-Cola”, per i quali si sa bene cosa rappresentano e cosa aspettarsi, questo “centrosinistra” non è più riconoscibile e non si sa più cosa contiene. Anche perché, a furia di chiamare centrosinistra, quello che centrosinistra non è, come si è fatto con ostinata pervicacia in particolare negli ultimi anni, questo ha finito per svuotarsi di significato.

E allora non basta riprendere in mano il vecchio “brand” e rispolverare un po’ l’insegna della ditta, per affrontare le nuove sfide che abbiamo di fronte.

Facciamo un partito, ma che sia un Partito

Per fare tutto quello che abbiamo detto c’è bisogno di organizzazione, di essere presenti, fisicamente e in modo tangibile per i cittadini. Ma dobbiamo anche sapere che non basta dire “andiamo avanti”. Servono spazi e tempi (anche lunghi) di riflessione, di studio, di elaborazione politica. A partire dal ruolo dei partiti e della Sinistra nella società contemporanea, alzando lo sguardo per guardare all’Europa e alle esperienze internazionali.

In fondo però, è questo che dovrebbe fare ed essere un Partito. E quello che andiamo a costruire dovrà essere così.

Non è tra i miei obiettivi né un piccolo partito inutilmente autonomo né un piccolo partito ancillare. Specialmente se riferito all’ottica di un centrosinistra storico, di cui abbiamo ampiamente discusso sopra.

Un partito che sia aperto, anzi spalancato. A quanto si muove e opera quotidianamente nella società per la lotta alle diseguaglianze, per i diritti, per il lavoro buono, per dare a tutti le stesse opportunità, per un modello di sviluppo inclusivo e solidale.

Un luogo di analisi e confronto permanente, di formazione, di elaborazione, proposta politica e culturale, non un comitato elettorale che si attiva a intermittenza o il luogo di piccoli o meno piccoli giochi di ruolo.

Tempo fa ho scritto in un articolo che per la Sinistra è necessario (visto il voto, a questo punto direi vitale) contaminarsi, farsi luogo di confronto, di scambio, di partecipazione, incubatore di istanze e di azione collettiva. Adesso è ancora più chiaro, che se non arriva questa nuova linfa la Sinistra non si rialza.

Decidere adesso di proseguire nella costituzione di un partito, e di lavorare per farlo crescere e radicare, per farne conoscere le idee e le proposte, così come il potenziale politico di innovazione e di miglioramento delle condizioni di tanti, deve andare in parallelo ed essere una spinta propulsiva a portare avanti un processo di apertura e di definizione della nostra identità.

La rabbia e la speranza

Chiudo con un principio di geolocalizzazione: “sui territori”. Dove, in senso positivo e nobile, ci si “sporcano” le mani. Perché nelle nostre comunità dal tessuto sfibrato e strappato c’è disagio, esclusione, protesta, ma insieme alla rabbia c’è anche la speranza.

Sta a noi scovarla, organizzarla, e tornare a coltivarla.

(1)  Da pochi giorni sono trascorsi esattamente 40 anni dal rapimento di Aldo Moro e trovo significative alcune sue parole, indirizzate al segretario della DC, seppur scritte in una situazione personale e in un contesto politico ben più drammatici: “Si riflette guardando forme nuove. La verità è che parliamo di rinnovamento e non rinnoviamo niente. La verità è che ci illudiamo di essere originali e creativi e non lo siamo. La verità è che pensiamo di fare evolvere la situazione con nuove alleanze, ma siamo sempre là con il nostro vecchio modo di essere e di fare (…) nell’illusione che, cambiati gli altri, l’insieme cambi e cambi anche il Paese, come esso certamente chiede di cambiare.(…) Perché qualche cosa cambi, dobbiamo cambiare anche noi. (…) E per cambiare (…) Si tratta di capire ciò che agita nel profondo la nostra società, la rende inquieta, indocile, irrazionale, apparentemente indominabile”.

(2) Parliamo spesso del successo di Corbyn e del modello statutario del Labour, quindi è opportuno ricordare il lavoro dell’attivista statunitense Arnie Graf, chiamato già da Ed Milliband a “rivitalizzare” il partito laburista britannico. Arnie Graf, allievo di Saul Alinsky (teorico del community organizing) arriva a Londra per rinnovare il profilo politico-organizzativo del Labour e si presenta così: “Per cambiare il paese, dobbiamo prima cambiare il partito”. Far politica in modo nuovo. “Non la vecchia politica di fare le cose per il popolo, dall’alto verso il basso. Ma una politica di trasformazione per il bene comune dal basso verso l’alto, che dia alla gente il potere e la responsabilità di avere più controllo sulla sua vita, il suo lavoro e la sua comunità”. (“Il diavolo e Saul Alinsky: come organizzare una comunità, rompere le scatole al potere, e vivere felici” https://shortcutsamerica.com/2014/01/04/f-7/). Più di recente Corbyn, per proseguire nel lavoro di radicamento del Labour, ha scelto una strada simile istituendo una “community campaign unit”: un dipartimento per supportare le campagne delle comunità locali, con l’obbiettivo di incoraggiare le comunità a costruire battaglie. Il tentativo è quello di potenziare il ruolo degli attivisti, costruire legami con i soggetti esistenti, promuovere comunità sociali e catalizzarne le energie. Un’azione sui territori, in particolare dove il partito è più debole, per attivare le comunità sui temi locali chiave, dalla casa, ai servizi sociali, alle scelte infrastrutturali. (“La sinistra riparte dai territori? Ma come?” http://www.organizziamoci.info/elezioni4marzo/)

Foto in evidenza: Serena Spinelli, capogruppo Articolo Uno-MDP, consiglio regionale della Toscana

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