Casa Bianca

La politica dell’inserruzione: Trump l’ha capita, gli altri no

Ieri il mondo si è svegliato – se mai era andato a dormire – con la notizia dell’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti. Il risultato delle elezioni americane ha colto di sorpresa molti, fra cui i giornalisti delle principali testate statunitensi (il New York Times e il Washington Post in testa) che nei mesi passati e, soprattutto, nelle scorse settimane, si erano schierati esplicitamente con la candidata democratica, lanciandosi in endorsement per lei e in attacchi frontali al suo competitor. Ogni sfumatura era cancellata, ogni voce dissonante silenziata: gli scandali della Clinton non erano reali, lei era perfetta e l’America già grande, chi sceglieva Trump era solo perché era un pessimo essere umano. Questo atteggiamento riflette quello dell’establishment democratico, che, invece di affrontare i problemi alla radice della rabbia di molti cittadini americani, ha preferito ignorarli. Lasciandoli così a disposizione di Donald Trump. Che li ha sfruttati e ha vinto.

Il New York Times, ad esempio, ha fatto mea culpa, scrivendo: «Abbiamo sbagliato, e di grosso; […] si è trattato dell’incapacità di percepire la ribollente rabbia di una parte così vasta dell’elettorato americano, che si sente abbandonato all’interno di una ripresa economica che non coinvolge tutti e tradito da una serie di accordi commerciali che considera una minaccia al proprio posto di lavoro voluta dall’establishment di Washington, da Wall Street e dagli organi di informazione. Si tratta, insomma, della vendetta della classe operaia molto meno disturbata dalle bugie di Trump che dai malanni nazionali contro cui Trump puntava il dito, promettendo di avere la soluzione».

Al netto dell’atto di cospargersi il capo di cenere di alcune testate, sulla stampa, ieri, si sono lette analisi precise da chi, in questi mesi, ha mantenuto un atteggiamento molto più laico. È il caso, ad esempio, del britannico Guardian e di Jacobin Magazine, la rivista dei socialisti americani.

Donald Trump si sta trasferendo alla Casa Bianca. E ce l’hanno messo i liberali” scrive Thomas Frank sul Guardian di ieri, in una delle analisi più lucide, pubblicate a caldo, che cerca di rispondere alla domanda “cos’è andato storto?”.
«Partiamo dall’inizio. Perché Hillary Clinton? Sì, certo, ha un curriculum impressionante; sì, certo, ha lavorato molto durante la campagna. Ma era precisamente la candidata sbagliata per questo momento rabbioso e populista. Una insider mentre il paese chiedeva un outsider. Una tecnocrate che ha offerto sintonia quando il paese voleva martellare la macchina». Hillary Clinton è diventata la candidata democratica favorita «perché era il suo turno e perché una vittoria della Clinton avrebbe fatto passare di livello ogni Democratico a Washington. Che vincesse o meno è sempre stata una questione secondaria, qualcosa che era dato per scontato. Se la preoccupazione principale del partito fosse stata vincere, c’erano molti altri candidati più adatti pronti». Ad esempio Joe Biden e Bernie Sanders. «Entrambi avrebbero probabilmente battuto Trump, ma nessuno dei due avrebbe fatto comodo davvero agli interessi degli insider del partito».
«Il problema più grande – conclude Frank – è che c’è una noncuranza cronica che, da anni, sta facendo marcire il liberalismo americano, una hybris che dice ai Democratici che non hanno bisogno di fare nulla di diverso, non hanno bisogno di dimostrare niente a nessuno – a parte ai loro amici sul Google jet e quelle persone tanto carine della Goldman. Il resto della gente viene trattata come se non avesse nessun altro posto dove andare e nessun altro ruolo da interpretare se non votare entusiasti con la motivazione che questi Democratici sono “l’ultima cosa che rimane” fra noi e la fine del mondo. È un liberalismo dei ricchi, che ha tradito la classe media».

«Ci sono due modi per rispondere a questa situazione» scrive Jacobin Magazine, in un editoriale dal titolo “La politica è la risposta” a firma del direttore, Bhaskar Sunkara, e di alcuni collaboratori della rivista: «Un modo è dare la colpa al popolo americano. L’altro è dare la colpa all’élite del paese». «Ma incolpare il pubblico americano per la vittoria di Trump rende solo più profondo l’elitarismo che ha motivato i suoi elettori […] Credere che l’attrattiva di Trump fosse completamente basata sul nazionalismo etnico è credere che una buona parte degli americani sono guidati solo da odio e da un desiderio condiviso per un programma politico basato sul suprematismo bianco».

I dati citati da Jacobin Magazine, infatti, raccontano un’altra storia: «La Clinton ha ottenuto il voto solo del 65% degli elettori ispanici, paragonato al 71% di Obama di quattro anni fa. Ha ottenuto un risultato così scarso contro un candidato che aveva nel programma la costruzione di un muro lungo il confine sud degli Stati Uniti, un candidato che ha iniziato la propria campagna chiamando i messicani degli stupratori. La Clinton ha ottenuto il voto solo del 34% delle donne bianche senza un diploma universitario. E ha vinto solo il 54% del voto delle donne, contro il 55% di Obama nel 2012. La Clinton, ovviamente, gareggiava contro un candidato che si è vantato di afferrare le donne “by the pussy“».

«Quasi da solo fra i politici democratici – scrive ancora Jacobin MagazineBernie Sanders parlava a questo senso di alienazione che ribolliva e alla rabbia di classe. Sanders aveva un messaggio molto semplice per il popolo americano: meriti di più e hai ragione a pensare questo. Sanità, istruzione universitaria, salario minimo. È un messaggio che lo ha reso il politico più apprezzato del paese. La piattaforma programmatica di Hillary Clinton si avvicinava ad alcune idee concrete di Sanders, mane ripudiava il suo messaggio essenziale. Per quelli a capo del Partito Democratico, non aveva senso inveire contro l’America. Per loro, l’America non ha mai smesso di essere grande. E le cose stanno solo che migliorando».

In un altro articolo di Jacobin Magazine, “Il Vecchio Mondo“, l’autore, Michael A. McCarthy, scrive: «Non è abbastanza – scrive McCarthy – dire che supporti e credi nella diversità – abbiamo bisogno di programmi attivi e robusti per la formazione e il lavoro che rendano la sicurezza economica realtà sia per i lavoratori di colore, sia per i lavoratori bianchi che stanno soffrendo. Non è abbastanza dire che supporti il diritto all’aborto delle donne – abbiamo bisogno di un salario minimo che dia alle donne povere e della classe operaia la capacità effettiva di scegliere se esercitare i loro diritti o meno. Non è abbastanza cercare di sistemare la sanità e alzare i prezzi, come ha fatto l’Obamacare – abbiamo bisogno di un sistema universale. Non è abbastanza schiaffeggiare le mani della finanza dopo che ha gettato il mondo in una crisi – dobbiamo riorganizzare dalle fondamenta il funzionamento della finanza. Non è abbastanza essere soddisfatti con gli attuali resoconti sul mondo del lavoro – le persone vogliono dei lavori buoni, non lavori precari».

«Trump ha attinto a tutto ciò. E dobbiamo farlo anche noi» conclude McCarthy. Le sue parole echeggiano quelle di Wolfgang Münchau pubblicate domenica scorsa sul Financial Times: «Qualunque cosa accada martedì negli USA, l’establishment nell’economie occidentali dovrà capire come rispondere più efficacemente alla politica dell’insurrezione. […] La questione principale non è se una risposta keynesiana sarebbe economicamente corretta. Il punto più importante è che se il centro-sinistra non offre questa risposta, lo faranno i populisti. A meno che il centro-sinistra non torni alle proprie radici keynesiane, penso che ci siano buone possibilità che la politica dell’insurrezione abbia successo».

E in questo caso lo ha avuto.

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