L’eventualità di un imminente ritorno alle urne ha riportato al centro del dibattito politico la necessità di effettuare una nuova legge elettorale, in grado di superare finalmente l’impasse che si protrae dallo scorso 4 marzo. In presenza di un quadro partitico (de)strutturato in almeno tre poli, esiste una formula capace di raggiungere questo scopo? In questo articolo cercheremo di analizzare il principio della governabilità esclusivamente sotto l’aspetto tecnico, effettuando una disamina dei diversi sistemi maggioritari presenti nelle democrazie europee e nelle competizioni locali italiane, con la consapevolezza che uno studio attento del rapporto governati/governanti debba tenere conto anche di variabili esogene alle formule elettorali, come le modalità di partecipazione dei cittadini alla vita pubblica, i meccanismi di costruzione del consenso, la capacità di una classe dirigente di guidare una trasformazione sociale.
I sistemi maggioritari mirano a produrre un chiaro vincitore: l’orientamento espresso dai cittadini in occasione dell’elezione del parlamento tende a ripercuotersi sulla formazione del governo, bypassando talvolta il ruolo del Presidente della Repubblica. Il caso emblematico è quello del Regno Unito, che adotta un sistema maggioritario ad un unico turno. La competizione si svolge in 650 collegi, all’interno dei quali è eletto soltanto il candidato che conquista il numero maggiore di voti (first past the post). Gli aspetti negativi sono rappresentati dallo sbilanciamento tra la distribuzione del voto e quella dei seggi e dalla forte limitazione del principio della rappresentanza. Un partito può conquistare un minor numero di collegi rispetto al suo principale sfidante raccogliendo, però, una quota maggiore di voti, oppure può essere escluso dal parlamento nonostante abbia ottenuto una significativa percentuale di consensi a livello nazionale.
Una seconda riflessione sul sistema britannico riguarda i suoi effetti sul quadro partitico. Come ha osservato in maniera brillante Giovanni Sartori, sebbene il maggioritario favorisca le aggregazioni tra le varie forze, per produrre un bipartitismo occorre che sussistano due condizioni ben precise: un sistema partitico strutturato e un elettorato omogeneamente definito (1). Entrambi i presupposti sono assenti nell’attuale scenario politico italiano. Infatti, il voto del 4 marzo ha tracciato un quadro decisamente frammentato, in cui le forze del centro-destra prevalgono a Nord, il M5S a Sud, il Pd soprattutto nelle grandi città e in qualche roccaforte toscana e romagnola. Occorre poi ricordare come nello stesso Regno Unito, due volte nelle ultime tre legislature, siano state necessarie alleanze post-elettorali per la formazione del governo, nel 2010 tra conservatori e liberaldemocratici, nel 2017 tra conservatori e unionisti nord-irlandesi.
Un’altra variante dei sistemi maggioritari è offerta dalla Francia. Il sistema semi-presidenziale d’oltralpe implica la presenza di un duplice voto, l’uno per scegliere il Presidente della Repubblica, l’altro per eleggere i parlamentari. Nel primo caso, si utilizza la formula del ballottaggio, al quale accedono i due candidati (e non i partiti) che hanno riscosso maggiori consensi. Per l’elezione dell’assemblea legislativa, invece, la competizione avviene a livello locale col meccanismo del doppio turno. In ciascun collegio accedono alla seconda votazione soltanto quei candidati che abbiano superato una soglia di sbarramento (attualmente prevista al 12,5% degli aventi diritto). Pertanto, è molto probabile che al secondo turno possano presentarsi anche più di due contendenti. Un sistema simile, trasposto in Italia, avrebbe l’effetto di consolidare ulteriormente l’assetto tripolare con la conseguente instabilità. D’altra parte, sia nel sistema semi-presidenziale che in quello presidenziale può verificarsi la mancata corrispondenza tra il colore della maggioranza parlamentare e di quella presidenziale, rendendo così necessario il raggiungimento di un compromesso bipartisan.
Una soluzione per sciogliere il nodo dell’ingovernabilità potrebbe essere rappresentata dal proporzionale con premio di maggioranza al primo partito, alla prima coalizione o, più genericamente, alla prima “lista”. Questo sistema, a dire il vero poco diffuso, è stato utilizzato in Grecia fino al 2016 e in Italia col Porcellum. La Corte Costituzionale ha sancito la necessità di individuare una percentuale minima per poter assegnare un surplus di seggi, giudicando ragionevole la soglia del 40% prevista dall’Italicum. In sostanza, la ragione del premio consiste nel rafforzare una maggioranza già espressa dagli elettori, senza crearne una in maniera artificiale, penalizzando le minoranze e determinando una «oggettiva e grave alterazione della rappresentanza democratica» (2).
Sebbene tale meccanismo incoraggi l’aggregazione tra le forze politiche, il suo rischio, come ricordato ancora una volta da Sartori, è rappresentato dall’eventualità che più partiti possano dar vita ad una coalizione con l’unico intento di raggiungere il maggior numero possibile di seggi per poi dividersi successivamente (3) .
I sistemi attualmente previsti per la scelta dei sindaci e dei presidenti di regione possono costituire un modello al quale ispirarsi? Di sicuro lo sono stati per l’Italicum. Bisogna sottolineare, però, come essi siano subordinati all’elezione diretta della carica monocratica. Il ballottaggio, infatti, avviene tra i primi due candidati, esattamente come per le presidenziali francesi; al vincitore è assicurato il 60% dei seggi in assemblea soltanto se le liste a lui collegate abbiano raggiunto almeno il 40% al primo turno. Questa clausola è valida anche per l’elezione della giunta regionale, con la differenza che viene eletto presidente colui che abbia ottenuto più voti al primo, e unico, turno. Sia nei comuni che nelle regioni, qualora la carica monocratica sia sfiduciata dall’assemblea, si procede ad elezioni anticipate per il rinnovo di entrambi gli organi (aut simul stabunt aut simul cadent).
A partire dagli anni ’90, le amministrazioni locali hanno rappresentato un laboratorio di sperimentazione della forma di governo presidenziale, individuata come una possibile risposta alla crisi della partitocrazia. Il processo di “presidenzializzazione” è avvenuto anche a livello nazionale, sebbene non sia stato formalizzato da una modifica della Costituzione. L’ascesa del leader carismatico, spesso a capo di un partito personale, ha condizionato direttamente le modalità di formazione del governo, i rapporti esecutivo-assemblea e gli equilibri interni al Consiglio dei ministri (4). Tuttavia, l’elezione (quasi) diretta del Presidente del consiglio, in un sistema comunque parlamentare, è stata giustificata da un presupposto chiaro: la presenza di due poli.
Una riforma di governo in senso presidenziale non rappresenta certamente un tabù, a patto che la selezione delle candidature sia preceduta da un processo democratico, partecipativo e non plebiscitario. Nel caso degli Stati Uniti, ad esempio, le nomine di Donald Trump e Hillary Clinton sono avvenute soltanto dopo un lungo, e plurale, dibattito che ha interessato i rispettivi schieramenti. In sostanza, se in tutte le democrazie esistono i leader, in nessuna democrazia esistono i leader che si scelgono da soli, con una gestione privatistica del proprio partito.
La costruzione di alleanze post-elettorali, anche a distanza di mesi dal voto, è un fenomeno ormai comune a tutte le democrazie parlamentari, dalla Germania alla Spagna, dall’Olanda fino al già citato Regno Unito. In questi contesti, la trasformazione del sistema partitico non ha annullato la reciprocità tra le differenti formazioni politiche. Collocandosi lungo l’asse destra/sinistra, ciascuna di esse si riconosce come “parte” di un “tutto” e sceglie il proprio posizionamento (e gli eventuali interlocutori) a seguito di un confronto aperto tra le diverse anime presenti al suo interno.
L’analisi dei tratti distintivi delle differenti formule di tipo maggioritario dimostra, dunque, che la via di uscita dall’instabilità non dipenda unicamente dalla legge elettorale, bensì dalla composizione del quadro partitico e dal comportamento dei soggetti che lo compongono. L’assetto tripolare non è dovuto alla presenza di piccoli partiti e al loro potere di ricatto, ma rispecchia la macro-frammentazione dell’elettorato, vale a dire la sua divisione in tre poli che hanno una grandezza rilevante.
Nel breve periodo è sicuramente possibile modificare il Rosatellum limitatamente ad alcuni aspetti, ad esempio introducendo il voto disgiunto ed abolendo le pluricandidature, in modo quanto meno da facilitare l’individuazione degli eletti. Nell’impossibilità di garantire la governabilità con certezza, si privilegi il principio della rappresentanza.
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(1) G. SARTORI, Ingegneria costituzionale comparata, Bologna, Il Mulino, 2004.
(2) Si vedano le sentenze 1/2004 e 35/2017 della Corte costituzionale.
(3) G. SARTORI, cit.
(4) Sul punto si veda F. MUSELLA, Il premier diviso. Italia tra presidenzialismo e parlamentarismo, Milano, Università Bocconi Editore, 2012.
L’illusione maggioritaria
L’eventualità di un imminente ritorno alle urne ha riportato al centro del dibattito politico la necessità di effettuare una nuova legge elettorale, in grado di superare finalmente l’impasse che si protrae dallo scorso 4 marzo. In presenza di un quadro partitico (de)strutturato in almeno tre poli, esiste una formula capace di raggiungere questo scopo? In questo articolo cercheremo di analizzare il principio della governabilità esclusivamente sotto l’aspetto tecnico, effettuando una disamina dei diversi sistemi maggioritari presenti nelle democrazie europee e nelle competizioni locali italiane, con la consapevolezza che uno studio attento del rapporto governati/governanti debba tenere conto anche di variabili esogene alle formule elettorali, come le modalità di partecipazione dei cittadini alla vita pubblica, i meccanismi di costruzione del consenso, la capacità di una classe dirigente di guidare una trasformazione sociale.
I sistemi maggioritari mirano a produrre un chiaro vincitore: l’orientamento espresso dai cittadini in occasione dell’elezione del parlamento tende a ripercuotersi sulla formazione del governo, bypassando talvolta il ruolo del Presidente della Repubblica. Il caso emblematico è quello del Regno Unito, che adotta un sistema maggioritario ad un unico turno. La competizione si svolge in 650 collegi, all’interno dei quali è eletto soltanto il candidato che conquista il numero maggiore di voti (first past the post). Gli aspetti negativi sono rappresentati dallo sbilanciamento tra la distribuzione del voto e quella dei seggi e dalla forte limitazione del principio della rappresentanza. Un partito può conquistare un minor numero di collegi rispetto al suo principale sfidante raccogliendo, però, una quota maggiore di voti, oppure può essere escluso dal parlamento nonostante abbia ottenuto una significativa percentuale di consensi a livello nazionale.
Una seconda riflessione sul sistema britannico riguarda i suoi effetti sul quadro partitico. Come ha osservato in maniera brillante Giovanni Sartori, sebbene il maggioritario favorisca le aggregazioni tra le varie forze, per produrre un bipartitismo occorre che sussistano due condizioni ben precise: un sistema partitico strutturato e un elettorato omogeneamente definito (1). Entrambi i presupposti sono assenti nell’attuale scenario politico italiano. Infatti, il voto del 4 marzo ha tracciato un quadro decisamente frammentato, in cui le forze del centro-destra prevalgono a Nord, il M5S a Sud, il Pd soprattutto nelle grandi città e in qualche roccaforte toscana e romagnola. Occorre poi ricordare come nello stesso Regno Unito, due volte nelle ultime tre legislature, siano state necessarie alleanze post-elettorali per la formazione del governo, nel 2010 tra conservatori e liberaldemocratici, nel 2017 tra conservatori e unionisti nord-irlandesi.
Un’altra variante dei sistemi maggioritari è offerta dalla Francia. Il sistema semi-presidenziale d’oltralpe implica la presenza di un duplice voto, l’uno per scegliere il Presidente della Repubblica, l’altro per eleggere i parlamentari. Nel primo caso, si utilizza la formula del ballottaggio, al quale accedono i due candidati (e non i partiti) che hanno riscosso maggiori consensi. Per l’elezione dell’assemblea legislativa, invece, la competizione avviene a livello locale col meccanismo del doppio turno. In ciascun collegio accedono alla seconda votazione soltanto quei candidati che abbiano superato una soglia di sbarramento (attualmente prevista al 12,5% degli aventi diritto). Pertanto, è molto probabile che al secondo turno possano presentarsi anche più di due contendenti. Un sistema simile, trasposto in Italia, avrebbe l’effetto di consolidare ulteriormente l’assetto tripolare con la conseguente instabilità. D’altra parte, sia nel sistema semi-presidenziale che in quello presidenziale può verificarsi la mancata corrispondenza tra il colore della maggioranza parlamentare e di quella presidenziale, rendendo così necessario il raggiungimento di un compromesso bipartisan.
Una soluzione per sciogliere il nodo dell’ingovernabilità potrebbe essere rappresentata dal proporzionale con premio di maggioranza al primo partito, alla prima coalizione o, più genericamente, alla prima “lista”. Questo sistema, a dire il vero poco diffuso, è stato utilizzato in Grecia fino al 2016 e in Italia col Porcellum. La Corte Costituzionale ha sancito la necessità di individuare una percentuale minima per poter assegnare un surplus di seggi, giudicando ragionevole la soglia del 40% prevista dall’Italicum. In sostanza, la ragione del premio consiste nel rafforzare una maggioranza già espressa dagli elettori, senza crearne una in maniera artificiale, penalizzando le minoranze e determinando una «oggettiva e grave alterazione della rappresentanza democratica» (2).
Sebbene tale meccanismo incoraggi l’aggregazione tra le forze politiche, il suo rischio, come ricordato ancora una volta da Sartori, è rappresentato dall’eventualità che più partiti possano dar vita ad una coalizione con l’unico intento di raggiungere il maggior numero possibile di seggi per poi dividersi successivamente (3) .
I sistemi attualmente previsti per la scelta dei sindaci e dei presidenti di regione possono costituire un modello al quale ispirarsi? Di sicuro lo sono stati per l’Italicum. Bisogna sottolineare, però, come essi siano subordinati all’elezione diretta della carica monocratica. Il ballottaggio, infatti, avviene tra i primi due candidati, esattamente come per le presidenziali francesi; al vincitore è assicurato il 60% dei seggi in assemblea soltanto se le liste a lui collegate abbiano raggiunto almeno il 40% al primo turno. Questa clausola è valida anche per l’elezione della giunta regionale, con la differenza che viene eletto presidente colui che abbia ottenuto più voti al primo, e unico, turno. Sia nei comuni che nelle regioni, qualora la carica monocratica sia sfiduciata dall’assemblea, si procede ad elezioni anticipate per il rinnovo di entrambi gli organi (aut simul stabunt aut simul cadent).
A partire dagli anni ’90, le amministrazioni locali hanno rappresentato un laboratorio di sperimentazione della forma di governo presidenziale, individuata come una possibile risposta alla crisi della partitocrazia. Il processo di “presidenzializzazione” è avvenuto anche a livello nazionale, sebbene non sia stato formalizzato da una modifica della Costituzione. L’ascesa del leader carismatico, spesso a capo di un partito personale, ha condizionato direttamente le modalità di formazione del governo, i rapporti esecutivo-assemblea e gli equilibri interni al Consiglio dei ministri (4). Tuttavia, l’elezione (quasi) diretta del Presidente del consiglio, in un sistema comunque parlamentare, è stata giustificata da un presupposto chiaro: la presenza di due poli.
Una riforma di governo in senso presidenziale non rappresenta certamente un tabù, a patto che la selezione delle candidature sia preceduta da un processo democratico, partecipativo e non plebiscitario. Nel caso degli Stati Uniti, ad esempio, le nomine di Donald Trump e Hillary Clinton sono avvenute soltanto dopo un lungo, e plurale, dibattito che ha interessato i rispettivi schieramenti. In sostanza, se in tutte le democrazie esistono i leader, in nessuna democrazia esistono i leader che si scelgono da soli, con una gestione privatistica del proprio partito.
La costruzione di alleanze post-elettorali, anche a distanza di mesi dal voto, è un fenomeno ormai comune a tutte le democrazie parlamentari, dalla Germania alla Spagna, dall’Olanda fino al già citato Regno Unito. In questi contesti, la trasformazione del sistema partitico non ha annullato la reciprocità tra le differenti formazioni politiche. Collocandosi lungo l’asse destra/sinistra, ciascuna di esse si riconosce come “parte” di un “tutto” e sceglie il proprio posizionamento (e gli eventuali interlocutori) a seguito di un confronto aperto tra le diverse anime presenti al suo interno.
L’analisi dei tratti distintivi delle differenti formule di tipo maggioritario dimostra, dunque, che la via di uscita dall’instabilità non dipenda unicamente dalla legge elettorale, bensì dalla composizione del quadro partitico e dal comportamento dei soggetti che lo compongono. L’assetto tripolare non è dovuto alla presenza di piccoli partiti e al loro potere di ricatto, ma rispecchia la macro-frammentazione dell’elettorato, vale a dire la sua divisione in tre poli che hanno una grandezza rilevante.
Nel breve periodo è sicuramente possibile modificare il Rosatellum limitatamente ad alcuni aspetti, ad esempio introducendo il voto disgiunto ed abolendo le pluricandidature, in modo quanto meno da facilitare l’individuazione degli eletti. Nell’impossibilità di garantire la governabilità con certezza, si privilegi il principio della rappresentanza.
—
(1) G. SARTORI, Ingegneria costituzionale comparata, Bologna, Il Mulino, 2004.
(2) Si vedano le sentenze 1/2004 e 35/2017 della Corte costituzionale.
(3) G. SARTORI, cit.
(4) Sul punto si veda F. MUSELLA, Il premier diviso. Italia tra presidenzialismo e parlamentarismo, Milano, Università Bocconi Editore, 2012.
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Roberto Sullo
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