Sara Nocentini

Sara Nocentini: il piacere di immaginarsi un mondo diverso e possibile

Se non avessimo già conosciuto lo spaesamento di un dialogo tra sordi, il delinearsi di spaccature irrecuperabili su commenti di commenti di commenti di una qualche dichiarazione; se non ci fossimo già divisi migliaia di volte per definire una volta per tutte la linea di demarcazione tra buoni e cattivi; se non avessimo coltivato l’illusione che discutere di alleanze sia di per sé un’azione politica; se non avessimo la certezza che è proprio questa impalpabilità a rendere la sinistra poco credibile e, almeno a grandi numeri, invotabile, forse leggerei con maggiore leggerezza e comprensione le dichiarazioni dei leader di turno della sinistra. Sarei magari disposta ad andare a scovare la bontà dei loro primi ammiccamenti, la freddezza dei ripensamenti, o guarderei con meno insofferenza il richiamo all’urgenza del cambiamento in funzione degli sviluppi della legge elettorale e delle probabilità di andare al voto.
Forse, se non ci fossi già passata sarei più benevola e tollerante, ma oggi delle dichiarazioni estemporanee di singoli con pretesa di rappresentanza non ne posso più. Il salvatore della sinistra sia esso rivoluzionario o moderato non è il mio ideale politico.

Allora cari compagni, care compagne, amici e amiche, giochiamo al teatrino mediatico quanto basta, ma costruiamo con ogni energia a disposizione una nuova lettura del mondo che possa tornare a costruire consenso intorno ad un rinnovato senso di appartenenza ad una forza di cambiamento della società, secondo ideali di giustizia e inclusione.
Perché ha ragione Rosa Fioravante quando rimprovera alla sinistra di non occuparsi abbastanza del consenso su temi concreti, ma il monito contenuto nel testamento di Alfredo Reichlin, che si è rivolto agli esponenti del suo partito (PD) e ai fuoriusciti da esso, vale anche per chi, come me, nel PD non c’è mai stato: non esistono più rendite di posizione. Quel nesso tra radicalismo delle idee e riformismo delle pratiche è tutto da costruire non solo analiticamente e concettualmente, ma nel ventre vivo della società, nelle classi che vogliamo con noi in questo progetto ambizioso.

Per costruire questo nuovo spazio politico è necessario a mio avviso compiere da subito pochi, ma decisi passi.
Il primo mi pare quello di riconoscere chi dice di starci come legittimato a farlo, con la sua storia e, ancor di più, con il modo in cui quella storia può portare un contributo ad una lettura della politica globale, nazionale e locale alternativa al neoliberismo imperante o al prodotto della sua crisi: il ritorno dei nazionalismi.

Partiamo, ad esempio, dal riconoscere che nel campo largo che ha deciso di compattarsi su una critica al pensiero unico dominante negli ultimi trent’anni ci sono certamente differenze che potrebbero giustificare l’ennesima scissione, quanto piccoli/grandi conquiste che parimenti possono giustificare una condivisione. Cerchiamo allora di avere rispetto per il lavoro dal basso, riconoscendo come valido e parziale quello di tutti.

Perché io ho gioito per il 55 % di Pisapia nel 2011, che ha strappato Milano dalle mani di Letizia Moratti; ho sostenuto l’affermarsi di una sinistra in Europa capace di mantenere vivo il senso di un’alternativa all’Europa delle banche, anche quando eravamo ancora in pochi a pensare che quella critica fosse necessaria; ho apprezzato, fin dalla primavera del 2016 il tentativo di Enrico Rossi di sfidare da sinistra la deriva del suo partito, ma fino in fondo mi sono riconosciuta nelle ragioni di un no di merito e di metodo allo stravolgimento di un equilibrio costituzionale, certamente complesso, ma da maneggiare con cura e rispetto e riconosco come di grande valore il contributo di chi ha portato avanti una posizione di dissenso interna al PD e chi si è impegnato nella società civile come Tomaso Montanari e Anna Falcone. Di straordinaria portata ritengo il contributo progettuale di cui la CGIL si è fatta promotrice nell’ultimo anno. Tutti questi impegni non convergeranno per attrazione naturale, né costituiscono per il solo fatto di esistere un’alternativa realizzata. Hanno bisogno di una classe politica in grado di farli comunicare e non, come spesso è accaduto in passato, ostinatamente a lavoro per evocare fratture insanabili che, spesso, nella base sono molto meno marcate e nette.

Il secondo passo necessario è chiarire a noi stessi cosa si intenda per stare con il popolo e rappresentarne i bisogni. Falcone e Montanari scrivono “una sinistra di popolo non può che rinascere dal popolo”, Pisapia parla di una politica del “noi”, Rossi chiama ad una elaborazione partecipata dell’essenza stessa, oltre che del programma, di una alternativa fortemente collocata a sinistra. Io sono d’accordo, ma domando: la nostra sinistra continua ad avere in mente un modello di rapporto tra base e rappresentanti di impianto leaderistico (solo che non ne troviamo uno/a che vada bene a tutti) o ci proponiamo di ricostruire gli spazi e le forme di una nuova elaborazione collettiva? Ci diamo una struttura larga, aperta, ma salda e capace di elaborare, tradurre tutta questa volontà in linguaggio comune, proposta politica, azione e militanza o ci affidiamo a qualche comunicatore esperto per trovare lo slogan vincente? In sostanza, ricalchiamo gli schemi della cosiddetta “democrazia del pubblico” con un/a conduttore/conduttrice illuminato/a e che finalmente dice qualcosa di sinistra o riteniamo che le forme della politica siano sostanza e ne creiamo una nostra?

La partecipazione, il noi, lo stare con il popolo a mio avviso saranno tanto più efficaci quanto più ricostruiremo una struttura a servizio di quell’intenzione, consentendo a ciascuno/a per il tempo e le modalità che può di sentirsi parte di qualcosa di più grande , che va oltre lui o lei, valorizzandone il contributo.

Infine, e in estrema sintesi, credo che una nuova elaborazione condivisa debba trovare il coraggio di partire proprio dai temi più difficili a sinistra. Senza questo coraggio, rimanderemo la soluzione di debolezze strutturali nell’elaborazione di un pensiero alternativo che ci portiamo dietro da oltre trenta anni e saremmo preda di facili attacchi e provocazioni, sempre a rincorrere il pensiero degli altri per spiegare il nostro dissenso, ma con limitata capacità progettuale. Si tratta di investire in un obiettivo ambizioso, di medio termine, capace di calarsi nelle battaglie del presente, ma senza chiudersi in esse, perché basato sulla consapevolezza che la decostruzione dell’immaginario neoliberista non si fa in un giorno, richiede continuità, costanza e la riscoperta del piacere di immaginarsi un mondo diverso e possibile. In questa ottica sarebbe importante tornare a favorire scambio e confronto, anche a livello internazionale sulla nostra Europa e le relazioni internazionali con il resto del mondo; sul lavoro e la sicurezza sociale (sanità, casa, scuola, cultura, reddito), sulla finanziarizzazione dell’economia, sulla sostenibilità ambientale nella produzione e nei consumi, sulla gestione delle nostre città, sulle riforme istituzionali funzionali a favorire inclusione sociale e rilancio economico, sulla formazione di una nuova classe dirigente. Dovremmo elaborare su questi temi una lettura condivisa, farla diventare patrimonio a servizio di chi vuole impegnarsi in politica, strumento per lanciare campagne e mobilitazioni, fondamento per chi ci rappresenta nelle istituzioni e ci governa.

Io non so quanto tutto questo potrebbe pesare in caso di elezioni anticipate o posticipate o con quale legge elettorale saremmo più vincenti, ma sono certa che potremmo guardarci indietro dopo qualche tempo e ripetere con Corbyncomunque vada, abbiamo cambiato la politica in meglio”.

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